Sul potere di autentica dell’avvocato in proprio

Con l’ordinanza n. 10941/2018, la Cassazione è tornata ad occuparsi delle autentiche in proprio dell’avvocato, ribadendo un principio ed affrontandone un secondo ancora piuttosto controverso.

A) Il principio ribadito è il seguente:
l’avvocato può (rectius, deve) autenticare anche quanto ricevuto in notifica.
Si tratta di un principio che va ormai consolidandosi in Cassazione e che colma in via interpretativa una lacuna normativa, ovvero:
1) il potere di autentica dell’avvocato non è generale (come invece, ad es., quello del notaio), ma sussiste nei soli casi in cui gli è espressamente attribuito;
2) l’art. 9 L. n. 53/1994 attribuisce all’avvocato il potere di autentica, che tuttavia deve riguardare anche le ricevuta pec di accettazione e quella di consegna (comma 1-ter, art. 9 cit);
3) le predette ricevute PEC sono in possesso del solo avvocato notificante e non pure di quello che abbia ricevuto la notifica, quindi il potere di autentica pare essere espressamente attribuito al primo e non pure al secondo.
In conclusione, l’interpretazione “estensiva” della Cassazione -certamente apprezzabile in astratto perché vòlta ad estendere il potere dell’avvocato- finisce per produrre effetti molto gravi, perché il principio è applicato al fine di produrre (non l’ammissibilità del ricorso nel caso di autentica fatta dall’avvocato che riceva la notifica, bensì) l’inammissibilità del ricorso ex art. 369 cpc nel caso in cui l’avvocato che abbia ricevuto la notifica non la abbia autenticata. Se le conseguenze sono queste, l’interpretazione estensiva non (mi) pare purtroppo molto condivisibile: nell’insanabile contrasto tra l’art. 369 cpc (che richiede l’autentica) e l’art. 9 L. n. 53/1994 (che non consente all’avvocato ricevente di produrla), la Corte anziché dichiarare l’inammissibilità del ricorso dovrebbe magari sollevare qlc.

B) Il secondo principio è il seguente (che riporto testualmente):
il citato art. 9 della legge n. 53 del 1994 non prescrive che l’attestazione di conformità debba essere sottoscritta dal medesimo difensore che assiste le parti nel grado di giudizio nel quale la copia analogica del documento digitale viene prodotta. Invero, il potere di certificare la conformità della stampa cartacea all’originale digitale va ravvisato in capo al difensore che è munito di procura alle liti al momento in cui l’attestazione viene redatta.“.
Il principio è di rilievo per le indicazioni -eventualmente, anche a contrario– che può fornire con riferimento al potere di autentica degli atti e provvedimenti presenti nel fascicolo informatico (e quindi a prescindere dall’eventuale notifica in proprio).
A tal proposito, infatti, l’art. 16-bis, co. 9 bis, DL n. 179/2012(*) attribuisce il potere di autentica (non all’avvocato, ma) al “difensore”.
La questione rileva, ad esempio, nel caso in cui la parte revochi l’incarico all’avvocato (rectius, “difensore”) che lo abbia assistito in primo grado, e per l’appello incarichi un nuovo avvocato: a poter/dover autenticare la sentenza da appellare, è l’avvocato che in quel grado non era (ancora) difensore, o l’avvocato che non lo è più?

(*) Scusate la pignoleria, ma vi pare normale che la norma cardine del processo civile telematico sia contenuta in: a) un “comma-bis” b) di un “articolo-bis” c) di un decreto legge?

Notifiche telematiche: l’elenco pubblico delle PEC non basta (serve anche quello dei Gestori)

Come per le notifiche a mezzo posta cartacee (cfr., da ultimo, questo articolo), anche per quelle a mezzo PEC sono previste delle limitazioni con riferimento ai Gestori del servizio  che possono effettuare materialmente le notifiche.

In altri termini, non è sufficiente che la notifica sia spedita e ricevuta da indirizzi PEC risultanti da un pubblico elenco, ma è altresì necessario che entrambi i rispettivi Gestori dei servizi (cioè sia quello del mittente che quello del destinatario) siano iscritti in un apposito elenco (art. 14 DPR n. 68/2005), tenuto dalla Agenzia per l’Italia Digitale (ex DigitPA, a sua volta ex CNIPA).
L’invito è quindi quello di verificare, anzitutto, se il gestore della propria PEC (iscritta al Reginde) sia in quell’elenco, perché non è così automatico che vi sia o che vi sia ancora. E tale verifica sarebbe opportuna anche relativamente alla PEC dei destinatari, non essendo sufficiente che la stessa sia stata reperita in uno dei pubblici elenchi PEC.

Infatti, in analogia con quanto previsto per le notifiche cartacee eseguite per il tramite di soggetto non autorizzato, anche per la notifica PEC eseguita tramite gestore non iscritto (o non più iscritto) nel predetto elenco dei Gestori la conseguenza è la inesistenza della notifica stessa, con impossibilità quindi di una eventuale sanatoria per raggiungimento dello scopo (art. 156 cpc).

Il requisito dell’iscrizione nell’elenco dei Gestori PEC riguarda anche il PCT (art. 20, co. 1, DM n. 44/2011), dato che i relativi depositi telematici sono appunto effettuati tramite PEC, ditalché le parti avrebbero diritto di conoscere il gestore PEC di controparte al fine di verificare l’esistenza giuridica dei relativi depositi telematici, ma tale dato al momento non è pubblicato in chiaro nella scheda fascicolo (verifica che potrebbe spiegare i propri effetti anche in cause, magari in corso da anni e con più gradi di giudizio, ancora non definite con sentenze passate in giudicato).

Notifiche e comunicazioni a mezzo PEC: quid juris se la casella del destinatario è piena, scaduta o invalida?

Nel caso di invio telematico a casella PEC del destinatario che sia piena, scaduta, invalida, o non funzionante per qualsiasi altra causa imputabile al destinatario, il suo provider di posta rilascia una ricevuta di consegna negativa, e la spedizione/comunicazione/notificazione telematica stessa non può dirsi completata/perfezionata, sicché viene meno l’effetto anticipato provvisorio della (prima) ricevuta PEC di accettazione e l’invio deve effettuarsi altrimenti (ad es., mediante notifica tradizionale cartacea).

Tale principio generale è espressamente derogato in due specifiche ipotesi:
1) le comunicazioni/notificazioni telematiche di Cancelleria (art. 16, co. 6, DL n. 179/2016), che in tal caso si ritengono perfezionate con il loro successivo deposito nella Cancelleria stessa, senza altro avviso al destinatario;
2) le comunicazioni/notificazioni telematiche al contribuente (art. 60, ult. co., DPR n. 600/1973), che in tal caso si ritengono perfezionate mediante deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società InfoCamere e successivo avviso al destinatario mediante raccomandata.

Con le dovute cautele per il destinatario, ed anche al fine di evitare disparità di trattamento per fattispecie analoghe (con conseguenti possibili rilievi costituzionali), sarebbe opportuno estendere le due suddette eccezioni anche alle altre comunicazioni/notifiche telematiche, ivi comprese quelle effettuate in proprio dall’avvocato, per le quali l’unico rimedio nel caso in cui si siano verificate decadenze per causa imputabile al destinatario PEC è quello di sperare in una rimessione in termini.

Juri Rudi

Sul dovere di autentica della PEC di notifica da parte del destinatario della stessa

E’ noto -ed in proposito è quindi del tutto inutile argomentare o riportare bibliografia- che l’avvocato non abbia poteri certificatori generali: il suo potere di autentica, infatti, è limitato ai soli casi in cui gli venga espressamente attributo dalla Legge, e cioè:
1) per la firma del cliente nella procura alle liti;
2) per gli atti e i provvedimenti presenti nel fascicolo PCT;
3) per il pignoramento, il titolo ed il precetto da depositare nelle procedure esecutive;
4) per gli atti e i provvedimenti da notificare in proprio;
5) per le notifiche telematiche da usare poi in cartaceo (ad es., iscrizione a ruolo in uffici senza PCT, richiesta di pignoramento, trascrizione di domanda giudiziale, ecc.).

Con particolar riferimento all’ultimo punto, altrettanto pacificamente si è finora ritenuto che il potere di autentica delle notifiche telematiche (nella specie previsto dall’art. 9 L. n. 53/1994) riguardi esclusivamente le notifiche effettuate dall’avvocato e non pure quelle ricevute.

Non che tale riferita interpretazione, a dire il vero, si fondi su una espressa limitazione normativa in tal senso da parte dell’art. 9 cit., ma piuttosto su una implicita interpretazione sistematica della normativa in tema di notifiche in proprio, che sin dalla sua rubrica sembra infatti riferirsi al soggetto attivo delle notifiche stesse.

Da tale interpretazione -per così dire- restrittiva della riferita norma discendono alcune conseguenze, tra cui quella dell’impossibilità per l’avvocato destinatario della notifica PEC della sentenza di appello di poter autenticare la notifica stessa al fine di depositarla (in cartaceo) in Cassazione quale allegato del relativo ricorso, a pena di improcedibilità dello stesso ex art. 369 cpc (il problema non sussiste invece in appello, per un minor formalismo del relativo giudizio, qualora l’appellante ometta di produrre copia autentica della sentenza impugnata, ma anche qui rimane il problema di dover provare la tempestività dell’appello nel caso di termine breve, come appunto nel caso di notifica della sentenza al difensore).

La predetta interpretazione restrittiva, secondo cui l’avvocato destinatario della notifica PEC non potrebbe autenticare la notifica stessa per mancanza dei relativi poteri certificatori, deve tuttavia fare i conti con una recente serie di pronunce giurisprudenziali, tutte conformi nel sostenere l’improcedibilità del ricorso qualora l’avvocato destinatario della notifica PEC non provveda ad autenticarla(*).

Da tali decisioni non si può ovviamente prescindere.
Mi pare, tuttavia, che l’argomento dalle stesse addotto per sostenere tale tesi non sia troppo pertinente.
Sostenere, sic et simpliciter, che il potere d’autentica in capo al destinatario della notifica deriverebbe dall’obbligo di depositare copia autentica della notifica stessa, mi pare infatti un po’ azzardato, salvo ricorrere ad una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto dell’art. 369 cpc (che prevede l’obbligo in parola) e dell’art. 9 L. n. 53/1994 (che prevede il potere di autentica relativamente alle notifiche in proprio).
Sostenere, inoltre, che il potere d’autentica in parola deriverebbe in qualche modo dalle norme in tema di PCT, mi sembra parimenti azzardato, visto che i file oggetto di autentica non sono estratti dal fascicolo telematico ma dalla casella di posta elettronica del destinatario, salvo ancora una volta ricorrere ad una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto dell’art. 16 bis DL. n. 179/2012 (che prevede il potere di autentica del difensore in ambito PCT) e dell’art. 9 L. n. 53/1994 (che prevede il potere di autentica relativamente alle notifiche in proprio).

Insomma, alla luce dell’obbligo previsto dall’art. 369 cpc e della relativa sanzione (improcedibilità), è senz’altro auspicabile estendere i poteri di autentica al destinatario della notifica telematica anche mediante il ricorso alla panacea di ultima istanza, rappresentata dall’interpretazione costituzionalmente orientata. Ma tale rimedio dovrebbe riguardare il caso in cui la dichiarazione di autentica esistesse, cioè fosse effettuata dal destinatario della notifica pur in assenza di una espressa attribuzione dei poteri stessi da parte del diritto positivo. Ove, invece, come appunto nei casi sottoposti al giudizio della Cassazione, quella autentica mancasse, sarebbe forse  meglio sollevare questione di legittimità costituzionale, anziché pronunciare l’improcedibilità del ricorso per mancato esercizio di un potere doveroso (art. 369 cpc) ma plausibilmente inesistente (art. 9 L. n. 53/1994). Diversamente, si trasformerebbe il potere di autentica in un dovere, attribuendo per via pretoria la qualifica di pubblico ufficiale in una fattispecie non contemplata dalla norma e quindi eccezionale (senza possibilità di interpretazione analogica).

Aggiungo, infine, che il problema dell’improcedibilità si pone ora, ma continuerà a porsi anche quando il PCT arriverà in Cassazione, perché il deposito telematico della notifica PEC eliminerà il problema dell’improcedibilità per i soli depositi -appunto- telematici (per i quali non è infatti necessario autenticare i file delle PEC), ma il problema persisterà per i depositi cartacei, ancora teoricamente possibili (la prima costituzione della parte è effettuabile anche cartaceamente) ma di fatto impediti dal difetto del potere di autentica in parola, con conseguente disparità di trattamento che pertanto richiederebbe comunque, anche con il PCT in Cassazione, una diversa soluzione al problema, sperabilmente di fonte normativa e non giurisprudenziale.

Juri Rudi

(*)
Corte di Cassazione n. 24422/2017, Corte di Cassazione n. 24292/2017, Corte di Cassazione n. 23668/2017, Corte di Cassazione n. 17450/2017.

 

 

 

 

 

PCT: il perfezionamento anticipato del deposito telematico non incide sul decorso dell’ulteriore eventuale termine decadenziale

Ai sensi dell’art. 16 bis, co. 7, DL 179/2012, “Il deposito con modalita’ telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia. Il deposito e’ tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna e’ generata entro la fine del giorno di scadenza e si applicano le disposizioni di cui all’articolo 155, quarto e quinto comma, del codice di procedura civile.”.
Come chiarito dal secondo periodo della norma, la ratio della disciplina è quella di porsi nella prospettiva del depositante, che si intende appunto tutelare collegando la tempestività del deposito all’attività del depositante stesso (seconda PEC), cioè a prescindere dall’effettiva accettazione della busta da parte del Cancelliere (quarta pec). In buona sostanza, si tratta di una fictio juris a tutela del depositante, tant’è vero che, affinché il deposito possa considerarsi effettivamente (e non solo legalmente) perfezionato non può ovviamente prescindersi dall’accettazione del Cancelliere: ove questa manchi (ad es., per rifiuto della busta), il deposito NON si perfeziona e viene quindi meno l’effetto anticipato provvisorio legato alla seconda pec dalla citata fictio juris. Ciò è esattamente quanto avviene in tutti i casi di procedimento complesso, in cui non si addossa all’avvocato l’eventuale ritardo imputabile a soggetti terzi cui il procedimento stesso sia pure affidato: si pensi, per tutte, alla notificazione, ove il termine di decadenza è giuridicamente rispettato (in via anticipata provvisoria) al momento della (mera) richiesta della notifica da parte dell’avvocato, cioè a prescindere dal momento e dall’eventuale ritardo nell’effettiva consegna dell’atto notificato al soggetto destinatario della stessa da parte dell’ufficiale giudiziario: anche qui, peraltro, non può certo prescindersi dall’effettiva conclusione (positiva) del procedimento, che costituisce una fattispecie a formazione progressiva nella quale l’effetto anticipato è comunque provvisorio cioè subordinato all’effettivo buon fine della notifica (sul concetto di deposito telematico quale fattispecie a formazione progressiva, cfr. Rudi, Le ricevute di deposito tramite PCT).
L’individuazione della ratio sottesa all’art. 16 bis cit. (tutela del depositante) e la qualificazione giuridica del deposito telematico come fattispecie a formazione progressiva (la quale, al di là della citata fictio juris anticipatoria, può dirsi definitivamente avvenuto solo se e quando l’atto depositato entri effettivamente nel fascicolo telematico quindi con la quarta pec), consentono allora di trarre le dovute e logiche conseguenze giuridiche. Tra queste, anzitutto quella che, ove il deposito stesso attivi un autonomo termine decadenziale (si pensi, al deposito dell’istanza di vendita quale dies a quo per il successivo deposito della documentazione ipocatastale), tale termine inizia a decorrere solo dall’effettiva perfezionamento della fattispecie di deposito, quindi dall’accettazione della busta da parte del cancelliere, ovvero dalla quarta pec. E ciò, sempre a tutela del soggetto depositante (che, altrimenti, potrebbe essere costretto a compiere un’attività processuale prima ancora di conoscere l’esito dell’attività processuale presupposta) e quindi conformemente alla ratio di sua tutela che ispira l’intera disciplina. La medesima disciplina, peraltro, si ritrova nelle altre predette ipotesi di fattispecie a formazione progressiva: nel caso delle notifiche, ad esempio, il termine di efficacia del precetto è rispettato con la (mera) richiesta di pignoramento, ma il termine di efficacia di questo ai fini della successiva istanza di vendita è subordinato all’effettiva (e positiva) esecuzione da parte del’ufficiale giudiziario, il cui termine di decadenza non si fa certo decorrere dal momento in cui il pignoramento viene richiesto, sebbene tale attività abbia appunto un’efficacia anticipata (provvisoria) proprio ai fini del rispetto dei termini.
Tale principio ha trovato espressa applicazione anche con riferimento all’iscrizione a ruolo successiva alla notifica dell’atto: a tal proposito, la Cassazione ha infatti precisato che l’anticipazione del perfezionamento della notificazione al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, integrando una tutela per il notificante diligente, in relazione alla esigenza di garantire il suo diritto di difesa ed anche sotto il profilo del principio di ragionevolezza, non ha ragione di operare e non opera con riguardo ai casi in cui il momento di perfezionamento della notifica assume rilevanza (non già ai fini dell’osservanza di un termine pendente nei confronti del notificante, bensì) per stabilire il dies a quo inerente alla decorrenza di un termine successivo del processo (Cass., SS.UU., n. 458/2005).
Quanto detto invece, ma è superfluo sottolinearlo, non trova ovviamente applicazione nel caso di termini consecutivi i cui singoli decorsi successivi non siano in alcun modo subordinati né condizionati dai depositi precedenti (che potrebbero perfino mancare), come ad esempio nel caso delle memorie ex art. 183 cpc.

PCT, sulle tracce dell’impronta di hash

Secondo un certo DPCM 13/11/2014, dall’11 febbraio scorso nelle copie autenticate in proprio dagli avvocati di atti e provvedimenti presenti nel fascicolo informatico sarebbe necessario indicare (anche) l’impronta di hash e l’UTC: il primo equivale al codice fiscale del file, ossia ad un riferimento univoco capace di stabilire che un certo file è identico ad un altro bit-per-bit; l’UTC è invece il riferimento temporale, ossia la data e l’ora in cui l’autentica stessa è stata effettuata.

Sull’applicabilità o meno di tale dpcm al pct (e alle notifiche pec) la migliore dottrina si è divisa, mentre la giurisprudenza non si è ancora pronunciata: peraltro, se e quando quest’ultima lo farà, ove ritenesse applicabile il citato dpcm, non potrebbe comunque che dichiarare l’irrilevanza giuridica dell’eventuale mancanza dell’impronta di hash e/o dell’UTC, per ragioni che vi risparmio perché esulano dal tema specifico del presente articolo, che riguarda infatti altro e precisamente quanto segue.

Come detto, l’impronta di hash nella dichiarazione di autentica dovrebbe servire ad indicare che il file autenticato corrisponde bit-per-bit al file che si trova nel fascicolo informatico; una corrispondenza quindi non solo formale o apparente ma sostanziale, ontologica. Bit-per-bit, appunto. E ciò dovrebbe appunto consentire di verificare che il file autenticato è proprio uguale, in tutto e per tutto, a quello che si trova nel fascicolo informatico.

Le intenzioni del dpcm sono, tutto sommato, buone.

Senonché -e vengo al punto- di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno.

Infatti:

1) i file firmati digitalmente che si trovano nel fascicolo sono in formato p7m, mentre quegli stessi file che l’utente scarica dal fascicolo stesso sono in formato pdf: questi ultimi, cioè i file pdf autenticati in proprio dall’avvocato, sono diversi bit-per-bit dai corrispondenti file p7m che si trovano nel fascicolo: in altri termini, l’impronta di hash del file pdf autenticato, che dovrebbe servire a dire che il file autenticato stesso è uguale bit-per-bit al file p7m del fascicolo informatico non corrisponde all’impronta di hash del file p7m stesso (d’altra parte, se vi corrispondesse, non si tratterebbe di copia ma di duplicato, per il quale non sarebbe necessaria l’autentica con l’hash). Poco male, direte voi: se tutti i file pdf estratti da un medesimo file p7m che si trova nel fascicolo informatico hanno la stessa impronta di hash, la verifica dell’autentica è comunque possibile: basta effettuare un nuovo download in pdf dello stesso file p7m dal fascicolo e verificare così che il file (nuovamente) scaricato abbia la stessa impronta di hash indicata dall’avvocato nel file autenticato. Giusto, ma aspettate di leggere il punto 2.

2) Ogni volta che si fa il download di un file firmato digitalmente (p7m) che si trova nel fascicolo telematico, il sistema genera una nuova copia del file stesso che rende disponibile all’utente in formato pdf, il quale è ogni volta diverso bit-per-bit dal precedente. In altri termini, 5 download di uno stesso file p7m generano 5 pdf con 5 impronte di hash diverse. Ciò significa che l’impronta di hash indicata dall’avvocato nella dichiarazione di autentica non corrisponde né all’impronta di hash del file p7m che si trova nel fascicolo né all’impronta di hash di tutti gli altri file pdf che si scaricassero dal fascicolo al fine di verificare la corrispondenza del file autenticato dall’avvocato con quello presente nel fascicolo (giacché a questo -e non ad altro- serve l’impronta di hash).

In pratica, l’autentica del file si basa su un criterio di corrispondenza (l’impronta di hash) che… non corrisponde.

Difatti, se ad esempio l’avvocato autenticasse il file allegato alla comunicazione pec della cancelleria indicando la relativa impronta di hash, siccome quest’ultima non corrisponde mai a quella del file p7m presente nel fascicolo informatico né a quella dei file pdf da lì scaricati, la verifica di conformità del predetto file autenticato si ridurrebbe ad accertare che esso abbia lo stesso contenuto formale cioè il medesimo testo del corrispondente file presente nel fascicolo informatico da cui si sarebbe dovuto estrarre. Cioè, esattamente quello che si farebbe se non ci fosse l’impronta di hash, che è appunto del tutto inutile secondo le stesse intenzioni per cui è stata introdotta, oltre che -in ogni caso- sproporzionata allo scopo, giacché impone formalismi eccessivi (sarebbe come pretendere che il notaio autenticasse un rogito dichiarando che la copia ha non solo il contenuto ma anche il tipo di carta e addirittura l’inchiostro uguale a quelli dell’originale), senza peraltro riuscire a garantire alcunché mancando appunto una corrispondenza tra hash indicato nella copia ed hash dell’originale o di sue ulteriori copie.

Adde:

Non essendoci alcun collegamento tra l’impronta di hash e il file presente nel fascicolo informatico né soprattutto con i successivi download dello stesso file, ne consegue che l’avvocato autenticante dovrà conservare, sine die, con estrema cura il file originario da cui ha estratto l’impronta, non potendo fare affidamento sul file presente nel fascicolo informatico. Ciò non sarebbe ovviamente necessario se ogni download del medesimo file presente nel fascicolo informatico avesse la stessa impronta.

IL DPCM 13/11/2014 non si applica al PCT

Con riferimento al DPCM 13/11/2014, e alle sue gravi conseguenze nel processo civile (su cui, v. per tutti questo articolo), segnalo qui di seguito alcune considerazioni, che reputo di grande importanza:

L’art. 4 del D.L. n. 193 del 2009 (conv. in L. n. 24 del 2010) ha stabilito che l’applicazione al processo, sia civile che penale, dei principi previsti dal CAD debba avvenire attraverso apposite regole tecniche approvate con decreto del Ministro della Giustizia.

Per la pubblica amministrazione il CAD prevede all’art. 71 che le regole tecniche vengano dettate con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato per la pubblica amministrazione e l’innovazione, mentre invece per la materia processuale le medesime regole tecniche, ai sensi del comma 1 del predetto art. 4, vanno emanate dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione.

Si tratta, peraltro, di una disposizione che è applicazione del principio posto dall’art. 110 Cost. che attribuisce direttamente al Ministro della giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.

Non credo, pertanto, che il D.P.C.M. emanato da ultimo a novembre sia direttamente applicabile alla materia processuale, quantomeno non senza di un apposito decreto del Ministro della Giustizia che lo recepisca.

Angelo Piraino, giudice del Tribunale di Termini Imerese

PCT: il CNF scrive al Ministro Orlando

Con lettera odierna (30/01/2015), trasmessa via email (dato, questo, piuttosto significativo anche da un punto di vista simbolico), il CNF ha chiesto al Ministro della Giustizia che il PCT venga semplificato: molti formalismi, attuali ed imminenti (si pensi all’impronta di hash) “non apportano alcun effettivo beneficio” e complicano inutilmente gli adempimenti processuali.

Il riferimento esplicito è al Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), di cui il CNF auspica l’inapplicabilità espressa al processo telematico.

PCT, il dies a quo dell’obbligatorietà totale: 31/12 o 1°/1?

Secondo il DL Orlando (art. 44) il deposito telematico esclusivo sarà OBBLIGATORIO “a decorrere dal 31 dicembre“.

La stessa norma aggiunge che, “fino a quest’ultima data“, il deposito telematico sarà FACOLTATIVO (“gli atti processuali ed i documenti possono essere depositati con modalità telematiche”).

La contraddizione tra i due periodi della norma (una stessa data è al tempo stesso prevista come primo giorno dell’obbligatorietà e come ultimo giorno della facoltatività) si può superare ritenendo che il dies a quo del primo periodo non sia da computare.

Oppure, la contraddizione stessa si può superare interpretando la norma nel senso che il deposito telematico sia facoltativo “fino” cioè al confine con il 31/12 (rectius, fino alle ore 23,59 del 30/12), mentre sia obbligatorio a “decorrere dal” 31/12 ore 00.01.

E’ a noi tutti noto il contrasto giurisprudenziale sul computo del dies a quo nel caso del periodo di sospensione feriale, ed in particolare se questo debba riprendere il 15 o il 16 di settembre (ora: 31 agosto).

Per evitare di finire in Cassazione per sentirsi dire che il dies a quo si computa o invece no, consiglio a tutti di depositare obbligatoriamente in telematico sin dal 31 dicembre.

Ecco la norma de qua:

<<…le predette disposizioni si applicano a decorrere dal 31 dicembre 2014; fino a quest’ultima data, nei casi previsti dai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 16-bis del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, gli atti processuali ed i documenti possono essere depositati con modalita’ telematiche e in tal caso il deposito si perfeziona esclusivamente con tali modalita’.>>

PCT: non fa una piega

Succede che un ricorso per decreto ingiuntivo viene depositato col banner del programma usato per generare il pdf testuale:

ricorso1

Succede allora che il giudice (fortunatamente di buon senso, come  prima di allora lo stesso aveva già dimostrato di essere), invita il ricorrente a ridepositare l’atto in formato più leggibile:

decreto

Succede quindi che il ricorso viene ridepositato in modo più leggibile, come richiesto:

ricorso2

 

Non fa una piega.