Procedimento disciplinare: nei giudizi dinanzi al CNF e in Cassazione, chi è la controparte dell’incolpato che impugni la decisione del CDD?

In una recente pronuncia (Cass., SS.UU., n. 19367/2019), peraltro conforme a diversi suoi precedenti (Cass., SS.UU., n. 17563/2019; Cass., SS.UU., n. 26148/2017; Cass., SS.UU., n. 16993/2017), la Suprema Corte ribadisce che il Consiglio Distrettuale di Disciplina (CDD) non è parte del giudizio di legittimità relativo alle sue stesse decisioni disciplinari.

Ovvio? Mica tanto. Nel regime previgente, in cui la potestà disciplinare era affidata al Consiglio dell’Ordine (COA), questi era comunque ritenuto parte necessaria nel giudizio di gravame del procedimento che lo aveva visto giudice in primo grado: a quei tempi, il “conflitto” di attribuzioni tra giudice e parte fu risolto, peraltro fin dagli anni settanta (Cass., SS.UU., n. 3580/1977), dando prevalenza alle funzioni pubblicistiche del COA di gestione e tenuta degli albi (Cass., SS.UU., n. 5715/2003), ritenendo evidentemente insufficiente, all’uopo, la partecipazione del PM (che peraltro a quei tempi presenziava davvero, sempre).

Ad ogni modo, il principio affermato con riferimento al CDD per il giudizio celebrato dinanzi alla Corte di Cassazione, comporta alcune conseguenze di un certo rilievo, ed in particolare:
1) per le stesse ragioni, esso dovrebbe applicarsi anche al giudizio dinanzi al Consiglio Nazionale Forense (CNF), che ha la medesima natura giurisdizionale;
2) invece del CDD, contraddittore necessario (in entrambi i gradi giurisdizionali) dovrebbe essere, oltre al PM e all’incolpato, il solo COA, cui è espressamente attribuita la legittimazione attiva ad impugnare e dalla quale, per ragioni di simmetria (che tanto stimolano il nostro senso di equità), dovrebbe ricavarsi, a contrario, anche quella passiva (art. 61, co. 2, L. n. 247/2012). Ciò, con due precisazioni: a) il COA legittimato è quello di appartenenza dell’incolpato, che non è necessariamente quello segnalante, ovvero che ha trasmesso l’esposto al CDD (cfr. art. 51, co. 2, L. n. 247/2012); b) il COA legittimato ben potrebbe essere più d’uno, come nel caso in cui il giudizio riguardi più incolpati, appartenenti a COA diversi.

Da quanto sopra emerge un ulteriore corollario.
Poiché ai gradi giurisdizionali del procedimento disciplinare (ovvero quelli che si celebrano dinanzi al CNF e alla Cassazione) si applicano le norme di rito civile (art. 37 L. n. 247/2012), ivi comprese quelle che disciplinano le spese ex art. 91 cpc e ss. (CNF nn. 97/2015, 76/2014, 24/2014), è quantomeno discutibile che il COA -assimilabile, più che ad una parte in senso stretto, ad un controinteressato che partecipa al giudizio nell’interesse dell’Ordinamento e quindi difficilmente assimilabile ad un soccombente- possa essere condannato a rimborsarle all’incolpato risultato vittorioso all’esito del gravame avente ad oggetto un provvedimento neppure emanato da chi poi dovrebbe subirne le relative conseguenze patrimoniali. Ciò pare trovare conferma non tanto nell’art. 592 cpp (che, pur limitando espressamente la condanna alle spese legali alle sole “parti private”, comunque non si applica al procedimento disciplinare giurisdizionale), ma dalla stessa giurisprudenza civile, secondo cui l’ufficio del P.M. (al quale, come detto, deve evidentemente equipararsi il COA che sia chiamato a partecipare al giudizio di impugnazione di un atto altrui) non può essere destinatario di condanna alle spese di giudizio (Cass. n. 20652/2011). Tantopiù che, fatta eccezione per l’iniziativa officiosa, il COA si limita a “tramettere” gli esposti al CDD senza poter entrare minimamente nel merito degli stessi (la stessa “manifesta infondatezza” è infatti rimessa in via esclusiva alla valutazione del CDD ex art. 14 Reg. CNF n. 2/2014), perciò ritenere responsabile il COA dell’iniziativa disciplinare e del suo esito sarebbe, in ogni caso, profondamente ingiusto.

 

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