Società tra avvocati, un pasticcio

Ci sono molti modi per descrivere il lavoro dell’avvocato.
Sempreché garantire “il diritto ad avere diritti” (1), ovvero salvaguardare l’accesso dei cittadini alla giustizia, possa definirsi semplicemente un lavoro(2).
Ad ogni modo, l’avvocato può svolgere tale fondamentale compito tanto in forma individuale quanto attraverso forme collettive (associazioni e società), che tengano tuttavia conto della necessaria peculiarità della professione forense(3).
La normativa che disciplina la materia non è mai stata semplice(4), e recentemente ha trovato una nuova regolamentazione, che tuttavia suscita diverse (preoccupanti) perplessità, sin da subito evidenziate dal Consiglio Nazionale Forense(5), e sulle quali si sofferma l’amico Francesco Volpe nell’articolo che qui di seguito ho il piacere di ospitare.
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NOTE
(1) Mascherin (CNF), Discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016.
(2) L’art. 8 L. n. 247/2012 (Nuovo Ordinamento forense) parla di “funzione sociale”, esercitata dall’avvocato a garanzia del corretto esercizio della giurisdizione e dei principi dello Stato di diritto: in arg. cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Broccardo), sentenza del 7 maggio 2013, n. 69.
(3) In arg., cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Picchioni, rel. Siotto), sentenza del 24 novembre 2016, n. 334.
(4) A dimostrazione di quanto sia delicata la materia cfr. Corte di Cassazione (pres. Amoroso, rel. Manna), ordinanza 15278 del 20 giugno 2017, che ha rimesso all’ufficio massimario l’approfondimento della questione.
(5) Cfr. Il Dubbio, 4 agosto 2017.

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 RIFLESSIONI SULL’ATTIVITÀ FORENSE SVOLTA IN FORMA SOCIETARIA
 Articolo di Francesco Volpe, ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Padova

Alcune considerazioni, a prima lettura, sull’art. 4 – bis della legge professionale, quale sarà introdotto, una volta promulgata la legge “sulla concorrenza” per l’anno 2017.
Detto articolo, come ben si sa, consentirà che la professione forense sia svolta anche in forma societaria, senza alcun limite alla natura della compagine che verrebbe così a costituirsi. Sarà dunque possibile costituire studi legali con la forma delle società di persone, delle società cooperative e, infine, anche delle società di capitali. Queste ultime potranno essere tanto a responsabilità limitata, quanto società per azioni o in accomandita per azioni.
Il tutto, con alcune limitazioni: almeno i due terzi del capitale sociale e dei diritti di voto dovranno spettare ad avvocati iscritti all’albo, ai quali spetterà anche la maggioranza dell’organo di gestione. A quest’ultimo, non possono partecipare soggetti estranei alla compagine sociale (ancorché quest’ultima indicazione sia piuttosto vaga, quando, ad esempio, ad essere socio sia un’altra società).
E se permane il principio di personalità della prestazione d’opera intellettuale (favorendo una sorta di solidarietà, nel caso di responsabilità civile verso i terzi), viene istituita anche una sorta di responsabilità disciplinare della società stessa, la quale sarà soggetta “alla competenza disciplinare dell’ordine di appartenenza”.
La riforma evidenzia, almeno a mio modo di vedere, alcune perplessità di carattere tecnico. Suscitano poi qualche interrogativo le finalità che essa intende perseguire.
Quanto al primo profilo, è, innanzi tutto, proprio la questione della responsabilità disciplinare della società a lasciare perplessi. Non solo perché appare anacronistico l’assoggettamento alle competenze degli Ordini (giacché le medesime competenze disciplinari sono state trasferite ai Consigli di Disciplina, per effetto della riforma del 2012 e del successivo regolamento C.N.F. 31 gennaio 2014, n. 1).
Ma anche perché il testo di legge non precisa se le sanzioni applicabili alle società siano le stesse previste per i singoli professionisti. Il che – valendo, in materia, il principio di tipicità – non pare cosa di secondario rilievo.
Inoltre, ammesso pure che le società professionali possano incorrere nelle medesime sanzioni previste per i professionisti individuali, vi è da interrogarsi su quali siano le conseguenze, quanto alle liti pendenti, dei provvedimenti di stato a loro irrogate.
È incerto, in particolare, se la sospensione o la radiazione della società possa comportare l’interruzione dei giudizi a lei affidati o se, in ragione del principio di personalità della prestazione, le liti possano proseguire perché ne sarebbe mandatario il singolo professionista che ha ricevuto la procura. Per tale evenienza, tuttavia, ci si interroga su quale sia l’effettività della sanzione attribuita alla società medesima, mentre resta oscuro, a quel punto, se il cliente sia tenuto a versare i compensi alla società (che, benché sospesa o radiata, continua ad esistere ed è titolare di un diritto di credito verso il cliente) ovvero al singolo avvocato che si occupa della causa.
Un problema simile a quello evidenziato è quel che è previsto per il caso in cui, ad essere sanzionato, sia il singolo professionista, socio della società. Secondo il comma 5 del citato art. 4 – bis, infatti, “la sospensione, cancellazione o radiazione del socio dall’albo nel quale è iscritto costituisce causa di esclusione dalla società”.
La disposizione crea non pochi problemi.
In primis, pare eccessivo che, in ragione di una sanzione pur grave, ma temporanea, qual è la sospensione, sia prevista necessariamente l’esclusione dalla società, che è conseguenza, sembrerebbe, di carattere definitivo.
In secondo luogo, non è chiaro se detta esclusione operi di diritto (circostanza prevista solo nel caso in cui alla società partecipino società fiduciarie, trust o interposte persone) ovvero se essa debba essere deliberata dalla compagine sociale (e con quali formalità, con quali maggioranze e con quali riflessi, per il caso di mancata attuazione).
Ma, soprattutto, è assai poco chiaro quali siano le conseguenze dell’esclusione, che è istituto previsto, dal diritto commerciale, per le società di persone e, oggi, anche per le società a responsabilità limitata e per le società cooperative, ma che non è previsto, invece, per le società per azioni. La mancanza di una previsione di legge, almeno per quest’ultimo caso, rende assai incerto quale sia il regime applicabile al socio escluso, dal momento che non è possibile ipotizzare che egli non sia rimborsato del valore della sua partecipazione. Non è, dunque, chiaro a quanto debba ammonotare il suo rimborso e chi debba farsene carico: se gli altri soci (i quali, a questo punto, vedrebbero ricadere su di sé conseguenze patrimoniali forse indesiderate, a causa dell’illecito disciplinare commesso da altri), se la società stessa (salvo che ciò non comporti una eccessiva riduzione del capitale sociale) ovvero se soggetti terzi, disposti a entrare nella compagine. E, nel caso in cui non sia possibile ricostituire il capitale sociale, non è chiaro se la società debba essere messa in liquidazione.
Passando, poi, a quanto la riforma non esplicita, vi è da chiedersi se dette società – alle quali non sembra poter essere negata la qualità di imprenditore a pieno titolo – siano assoggettate al regime proprio di questa figura. E, quindi, anche alla possibilità di incorrere in procedure concorsuali.
Pertanto, per il tal caso, si pone ancora una volta il problema della prosecuzione delle liti pendenti e, ammesso che il relativo obbligo gravi sul singolo professionista, resta da chiarire se i compensi possano essere da lui lecitamente richiesti ovvero se gli stessi debbano concorrere a formare la massa attiva del fallimento. Se così fosse, invero, il professionista sarebbe gravato da precise responsabilità nell’espletamento del mandato, senza tuttavia poter sperare in alcun ristoro per l’attività svolta.
In generale, vi è, poi, la singolarità del fatto che la prestazione sia svolta da un professionista, mentre ad esigere la controprestazione sia un diverso soggetto: la società stessa.
Ciò, in parte, già avviene, con le associazioni professionali, la cui costituzione è da tempo consentita.
Ma, nel caso dell’esercizio della professione in forma societaria, potrebbero forse emergere nuovi problemi applicativi di non secondario rilievo.
Guardando, ad esempio, agli aspetti previdenziali (su cui la riforma tace), poiché pare incongruo che dette società siano tenute ad essere iscritte alla Cassa (ma l’art. 4 – bis nulla dice al riguardo), vi è da chiedersi se le fatture che esse presenteranno dovranno esporre l’ordinario 4% C.P.A.
Se così non fosse, invero, tali società sarebbero in grado di attuare un significativo ribasso rispetto a quanto richiesto dai professionisti che, operando individualmente, sono tenuti, invece, ad applicare quell’aliquota.
Allo stesso modo, non è chiaro se il professionista-socio (che trarrà la propria remunerazione non tanto dai compensi percepiti, quanto dai dividendi) dovrà calcolare la propria contribuzione previdenziale sulla base delle parcelle emesse dalla società ovvero sulla base dei dividendi stessi. Se valesse la seconda ipotesi, potrebbe emergere, anche in tal caso, una qualche efficacia distorsiva della concorrenza. Quanto meno perché i dividendi dovranno essere riconosciuti anche al socio di capitale, sì da abbattere, in ragione dell’ammontare della partecipazione di quest’ultimo, la base previdenziale imponibile e sì da favorire, anche in tal caso, la richiesta di compensi più bassi.
Si passi, infine, agli scopi della riforma. A tal riguardo, come da taluno è già stato osservato, è dubbio a cosa possa mai servire l’intervento di un socio di capitali in uno studio legale.
Almeno avendo a riguardo le dimensioni di uno studio non particolarmente strutturato, forse un tale intervento non pare del tutto giustificato, nonostante i cospicui adempimenti e le incrementate dotazioni di cui uno studio oggi deve avvalersi.
Al riguardo, a mio parere, si debbono tenere distinte due ipotesi.
In primo luogo, si deve dare atto, in effetti, che esistono realtà professionali molto ramificate, con importanti sedi dislocate nel territorio nazionale, nelle quali prestano la propria attività non poche decine – se non centinaia – di professionisti. Questi ultimi, attualmente, ricoprono una posizione piuttosto ambigua, perché, se essi sostanzialmente operano come lavoratori dipendenti, formalmente non sono tali e agiscono alla stregua di liberi professionisti.
D’altro canto, il mantenimento di quelle strutture è indubbiamente oneroso, rispondendo a criteri di organizzazione complessa. Con riguardo a queste particolari realtà professionali, pertanto, l’apporto di un socio di capitali può effettivamente rivestire una certa utilità. Forse, l’assunzione di una sorta di modello corporativistico, quale la riforma pur consente, può aiutare a sciogliere quell’equivoco in cui versano i professionisti che in quelle medesime realtà oggi operano.
L’utilità di un socio finanziatore pare meno comprensibile, se si guarda, invece, agli ordinari studi professionali.
Per tali ipotesi, tuttavia, il socio finanziatore può assumere caratteristiche ben diverse con possibili effetti indesiderati, nel caso in cui quel socio si identifichi con un cliente di rilievo dello studio o, addirittura, con un cliente uso a fornire allo studio una sorta di incarichi ripetitivi. Come avviene, almeno in certi casi, per le banche e per le assicurazioni.
Va detto, infatti, che la riforma non contiene alcun divieto circa la possibilità che socio e cliente della società si identifichino.
Si immagini dunque che la Banca “Caia” fornisca contenzioso periodico allo studio professionale “Tizio”. Già la Banca, verosimilmente, si sarà dotata di convenienti contratti-quadro di collaborazione, in ciò favorita dalla ormai non più remota abolizione dei minimi tariffari.
In ragione della riforma, tuttavia, la medesima Banca potrà chiedere allo studio di costituire con esso una società, alla quale la Banca stessa parteciperà come socio di capitale.
Lo studio, verosimilmente, sarà indotto ad accettare l’offerta, a pena di correre il rischio di perdere un tanto importante cliente e ammetterà la Banca alla divisione dei propri utili. In tal modo, da un punto di vista economico, la Banca “rientrerà”, sotto forma di dividendi, di parte di quanto da lei versato a titolo di onorari.
Se disinvolta, quella Banca potrà anzi agire su “due tavoli” e, una volta entrata nella compagine sociale, potrà attuare pratiche distorsive a proprio vantaggio, avvalendosi della sua doppia qualità di socio e di cliente. In tesi, non si può escludere che il cliente-socio possa, talora, persino accettare il fallimento della società stessa (salvo essere pronto a partecipare ad una società nuova con diversi professionisti), quando la cosa possa essere conveniente.
In definitiva, ancora una volta, mi pare che si sia di fronte ad una riforma tecnicamente approssimativa ed equivoca nei suoi fini, sulla quale non sarebbe, forse, stata inopportuna una più approfondita riflessione.

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