L'accordo arbitrale

Innanzitutto, va premesso che con il d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, emanato in forza della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, è stata promulgata una nuova riforma dell’arbitrato, entrata in vigore il 2 marzo 2006.

Chiusa la parentesi, i tipi di convenzione arbitrale previsti dal nostro codice di rito erano il compromesso e la clausola compromissoria. Il compromesso ha ad oggetto liti attuali, mentre la clausola compromissoria liti eventuali e future.

Nonostante il compromesso fosse per la legge il paradigma di convenzione arbitrale, vale a dire il modello principale, nella pratica il compromesso era ed è assai raro, mentre la clausola compromissoria è di gran lunga più frequente. La ragione è ovvia: quando le parti sono in lite controvertono su tutto, compreso il giudice cui affidare la soluzione delle liti, sicché è sufficiente che uno dei litiganti mostri di avere preferenza per la soluzione arbitrale della lite per indurre nella controparte la convinzione opposta. Inoltre, poiché l’arbitrato viene (o veniva, visto il nuovo art. 820 c.p.c.: norma per me criticabile) prescelto per la sua maggiore speditezza rispetto al giudizio ordinario, c’è spesso una parte che pensa di avere maggiori probabilità di avere torto o di dover pagare e quindi ha interesse a ritardare il più possibile la decisione.

A seguito della riforma possiamo dire che abbiamo tre tipi di accordo arbitrale o meglio due tipi, di cui uno dei due diviso in due sottospecie: il compromesso (art. 807 c.p.c.), la clausola compromissoria (art. 808 c.p.c.), la “convenzione di arbitrato in materia non contrattuale” (art. 808-bis c.p.c.).

Prima della riforma, poiché il vecchio art. 808 parlava, pur incidentalmente, solo di “controversie nascenti dal contratto”, si discuteva se il patto compromissorio per controversie future potesse riguardare anche liti non contrattuali purché riguardanti affari determinati. Parte della dottrina sosteneva che ciò fosse possibile per ragioni che non serve ricordare. Oggi ogni questione è stata eliminata con il nuovo art. 808-bis, il quale prevede espressamente la liceità di un simile patto. Sicché oggi abbiamo due tipi di accordo arbitrale: 1) il compromesso per liti attuali; 2) il patto compromissorio per controversie future, di cui a) la clausola compromissoria per liti contrattuali e b) la convenzione di arbitrato in materia non contrattuale. Queste ultime due sono sottospecie di un’unica figura perché, riguardando entrambe controversie future, sono fra loro compatibili e possono coesistere in un’unica convenzione (es.: le parti si impegnano a devolvere in arbitri tutte le controversie future derivanti dal contratto e dalle trattative che l’hanno preceduto), mentre non possono coesistere il compromesso e le altre due.

Chiarito cosa si intende per accordo arbitrale, parleremo d’ora in avanti solo del patto compromissorio per controversie future, distinguendo – se occorra – tra la sottospecie a) o b).

Elementi da negoziare.
Tralasciamo la discussione che può intervenire tra le parti in ordine alla opportunità di inserire una clausola compromissoria. Anche questo è un elemento da negoziare, il più importante in questo ambito ma è a rigore fuori dal tema assegnatomi. Le ragioni della scelta dell’arbitrato sono note; oggi la situazione è divenuta difficile per la riforma del diritto societario (estraneità degli arbitri alle parti) e per questa riforma.

Presupponendo che le parti siano d’accordo nello stipulare il patto compromissorio, il primo elemento da negoziare può essere individuato nella scelta delle liti da affidare agli arbitri.

Spesso, nelle clausole comunemente in uso i compromettenti indicano le liti da devolvere ad arbitri con riferimento a determinate fattispecie astratte, quali ad esempio l’“interpretazione”, l’“esecuzione” o l’“efficacia” del contratto. Se la portata della convenzione arbitrale va ricostruita sulla base della comune volontà dei compromettenti, senza “limitarsi al senso letterale delle parole” (art. 1362 c.c.) mi pare che, l’ipotesi, frequente nella pratica, che la convenzione arbitrale contenga il riferimento a definizioni giuridiche come sintesi di possibile oggetto delle future vertenze non possa essere significativa dell’intento di circoscrivere il contenuto della convenzione arbitrale. Gli istituti giuridici generalmente richiamati sono, infatti, di tale ampiezza e caratterizzati da un così elevato numero di interconnessioni con altre categorie potenzialmente oggetto di lite, da far dubitare che le parti volessero riservare la competenza arbitrale alle sole controversie strettamente rientranti nelle figure menzionate. Per fare alcuni esempi, una lite in tema di “interpretazione” del contratto è necessariamente collegata ad una controversia sull’adempimento oppure sulla validità o sull’efficacia del contratto medesimo: senza tale seconda prospettazione, la questione risulta fine a se stessa e l’azione rimane carente di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.); una lite in tema di “risoluzione” può presupporre una vertenza in materia di interpretazione o di adempimento o anche di validità; analogamente una lite sull’”esecuzione” può sfociare in una domanda di risoluzione del contratto e di condanna al risarcimento danni. Si può pertanto presumere che si tratti di formule ellittiche con cui le parti hanno inteso fare generico riferimento a tutte le controversie insorgenti da quel determinato contratto.

D’altro canto, i soggetti, quando inseriscono nel contratto una clausola compromissoria, non si prefigurano tutte le controversie che potranno originare dal contratto stesso e sono normalmente mossi dall’intento di dirimere tutte le eventuali, future liti in modo più celere rispetto al giudizio ordinario. Un’interpretazione restrittiva della clausola comporterebbe, invece, la necessità di sottoporre a due diversi organi (arbitro e giudice ordinario) la decisione di questioni strettamente collegate tra loro con una incalcolabile dilatazione dei tempi di giudizio. Si pensi all’ipotesi – frequente nella pratica – in cui nella convenzione arbitrale si faccia riferimento alle liti in tema di “interpretazione ed esecuzione del contratto”. In tal caso, qualora una delle parti volesse agire per ottenere la risoluzione del contratto ed il risarcimento danni e l’altra eccepisse la nullità del contratto stesso, un’interpretazione letterale della clausola compromissoria potrebbe comportare il seguente iter: le parti dovrebbero ricorrere all’arbitrato per interpretare il contratto (in quanto per decidere se un contratto sia valido o invalido occorre preliminarmente comprenderne il significato); successivamente dovrebbero rivolgersi al giudice ordinario per la questione della nullità; nel caso in cui il giudice accertasse la validità del contratto, dovrebbero rivolgersi all’arbitro per accertare se esso sia stato o non eseguito; in caso di mancato adempimento dovrebbero adire nuovamente il giudice ordinario per ottenere la risoluzione ed il risarcimento danni.

In definitiva, la preferenza nei confronti della soluzione arbitrale delle future liti, ricavabile dalla sola circostanza che le parti abbiano stipulato un patto compromissorio, unitamente allo scopo normalmente perseguito di una celere soluzione delle controversie, induce a presumere che, in assenza di specifica esclusione, i compromettenti abbiano inteso devolvere ad arbitri tutte le questioni derivanti, in modo diretto o indiretto, dal contratto o dal rapporto.

Anche la giurisprudenza (ovviamente ante riforma), nonostante la declamazione di principio per cui la convenzione arbitrale andrebbe interpretata restrittivamente quanto al suo ogget
to, fondata sull’osservazione che la soluzione delle liti tra privati spetta, normalmente, al giudice ordinario e può essere affidata ad arbitri solo per effetto di un apposito accordo tra i litiganti, qualora i compromettenti indichino le liti da devolvere ad arbitri con riferimento a determinate fattispecie astratte, quali ad esempio l’“interpretazione”, l’“esecuzione” o l’“efficacia” del contratto, non circoscriveva la competenza arbitrale alle sole liti strettamente inquadrabili nelle fattispecie stesse. Va infatti evidenziato come la maggior parte delle sentenze emesse in materia escluda che l’indicazione di determinati istituti giuridici contrattuali possa assumere rilievo ermeneutico.

La giurisprudenza dominante ritiene anzi che la sola stipula della clausola denoti una preferenza dei contraenti per la soluzione arbitrale delle liti e presume, conseguentemente, la volontà degli stessi di sottoporre alla competenza degli arbitri ogni questione derivante, in modo diretto o mediato, dal contratto. In tale ottica, si è deciso ad esempio che rientrano nell’oggetto del patto compromissorio anche vertenze derivanti da atti aggiuntivi e modificativi rispetto al contratto originario contenente il patto stesso: la lite relativa all’impegno assunto dall’appaltatore di eliminare i vizi sarebbe di competenza degli arbitri nominati in forza di una clausola contenuta nel contratto d’appalto; la controversia avente ad oggetto l’eventuale esistenza di un accordo simulatorio sarebbe ricompresa nell’ambito del patto compromissorio inserito nel contratto simulato; la clausola arbitrale contemplata in un contratto preliminare comprenderebbe anche le vertenze originate dal definitivo; la clausola compromissoria prevista nell’atto di prenotazione di un alloggio costruito da cooperativa edilizia estenderebbe i suoi effetti anche alle controversie derivanti dal successivo atto di assegnazione.

Ed effettivamente, l’ordinamento, nel riconoscere e disciplinare l’autonomia privata in materia arbitrale (artt. 806 ss. c.p.c.), non detta né sottende alcun criterio in ordine all’interpretazione degli eventuali atti di esercizio dell’autonomia stessa. Se si dovesse guardare con sfavore ogni atto di autoregolamentazione solo sulla base della constatazione empirica che, in sua assenza, si applica il diritto positivo, occorrerebbe interpretare restrittivamente qualsiasi contratto. Né è possibile rinvenire nell’ordinamento una generale avversione nei confronti della stipula di patti compromissori, essendo la recente legislazione orientata, invece, in senso ad essa favorevole.

Osservando il contenuto della riforma ci si potrebbe domandare perché dedicare tutto questo tempo ad un problema che la legge parrebbe avere risolto. Con il nuovo art. 808-quater c.p.c. la legge aveva intenzione di risolvere definitivamente la questione. La questione aveva rilevanza perché il convenuto probabile soccombente tentava sempre di eccepire la mancata competenza arbitrale sulle base di un’interpretazione letterale restrittiva della clausola. L’art. 808-quater dice “Nel dubbio, la convenzione di arbitrato si interpreta nel senso che la competenza arbitrale si estende a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

Ebbene, questa norma non risolve tutti i problemi perché si potrebbe ritenere che, se i compromettenti si riferiscono espressamente ad una determinata categoria di liti non vi sarebbe dubbio, sicché quanto sin qui esposto rimane utile per far respingere la tesi restrittiva.

Se noi abbiamo clienti seri dobbiamo usare clausole che dicano “tutte le controversie nessuna esclusa (eccezion fatta per le liti non compromettibili per legge) riguardanti il contratto, le trattative che lo hanno preceduto ed eventuali atti e contratti esecutivi o comunque collegati al contratto stesso, …”.

Vi sono però casi in cui le parti intendono realmente circoscrivere le controversie da arbitrare ma in tal caso non usano gli istituti contrattuali: ad esempio, per le liti per le quali è possibile il procedimento monitorio oppure nei contratti di assicurazione: solo l’an o il quantum del danno. Il limite contenuto in queste clausole ha efficacia, ma può comportare problemi applicativi.

SECONDO elemento da negoziare: lodo impugnabile o no. Oggi la seconda alternativa è un effetto naturale: art. 829 III comma c.p.c. La novità non mi piace, perché ritengo che la facoltà di impugnare il lodo arbitrale per violazione di regole di diritto renda il ricorso all’arbitrato più “normale” e più simile al ricorso al giudice ordinario. La possibilità di impugnare la sentenza per due gradi di giudizio, infatti, deve essere vista come una manifestazione di civiltà. E’ vero che le parti hanno sempre il potere di prevedere l’impugnabilità del lodo, ma è anche vero che, nella maggior parte dei casi, le parti determinano il contenuto della convenzione arbitrale ricopiando formule contenute in vecchi contratti, sicché, per il futuro, si può prevedere che la maggior parte delle clausole avranno come effetto la non impugnabilità.

La TERZA questione da negoziare è arbitrato di diritto o di equità. Questa alternativa oggi ha perso un po’ di importanza proprio per la previsione di cui all’art. 829 comma III. Secondo l’art. 822 c.p.c. non toccato dalla riforma i compromettenti possono scegliere se dirimere la lite attraverso l’applicazione del diritto statuale oppure mediante un giudizio di equità. La legge non chiarisce in cosa consista l’arbitrato di equità: l’unica norma che forniva qualche indicazione era il vecchio art. 829, comma 2°, c.p.c., il quale escludeva, in tale ipotesi, l’impugnabilità del lodo per inosservanza di regole di diritto, equiparando, sotto questo specifico profilo, la decisione emessa dagli arbitri autorizzati a riferirsi all’equità ed il responso dichiarato dai compromettenti non impugnabile. Oggi per effetto della riforma è scomparso il riferimento, in quanto anche il lodo di diritto non è – salvo deroga – impugnabile. E’ diffusa l’idea che il giudizio equitativo rappresenti un miglioramento rispetto al giudizio di diritto, in quanto consentirebbe di porre rimedio ad ipotesi in cui la rigida applicazione delle norme codificate porterebbe a conseguenze inique. Al di là della sua genericità – poiché si dovrebbe preliminarmente affrontare l’irrisolta questione dei concetti di “giusto” ed “ingiusto” -, la tesi poteva essere condivisa senza riserve in un’epoca nella quale – in esasperata osservanza del principio della separazione dei poteri dello Stato – il giudice avrebbe dovuto limitarsi a svolgere la funzione di mero esecutore della volontà del legislatore. Nel sistema italiano attuale, invece, in cui è nozione istituzionale che il “legislatore” dell’art. 12 prel. rappresenti la “personificazione di un principio di razionalità”, tale da autorizzare l’interprete ad adottare tutti i canoni ermeneutici comunemente riconosciuti (storico, sistematico, teleologico, di efficienza economica, etc.), il giudice ha senz’altro maggiori possibilità di modellare le norme scritte sul concreto caso da decidere. Anche in presenza di regole con fattispecie astratta particolarmente rigida, il giudice può ovviare – senza infrangere formalmente la supremazia del potere legislativo – con l’utilizzo delle numerose clausole generali presenti nel codice (buona fede, ingiustizia del danno, etc.). In un ordinamento composito e così evoluto – sotto il profilo dell’interpretazione giuridica – come il nostro, risulta, pertanto, difficile poter condividere l’opinione secondo cui il giudice o l’arbitro tenuti a seguire le norme di diritto sarebbero costretti ad emettere decisioni ingiuste in particolari casi dei quali il legislatore non si sarebbe avveduto al momento della formulazione della legge. Ciò premesso, occorre, però,
precisare che l’abbandono della concezione positivistica del diritto ed il riconoscimento al giudice di potere creativo non può condurre a vanificare integralmente l’opera del legislatore. La conclusione derivante dalla premessa e dalla successiva precisazione è che, mentre il giudice di diritto deve argomentare riconoscendo importanza fondamentale alle norme positive e può, per questa via, giungere ad una soluzione equilibrata, utilizzando, ad esempio, il meccanismo “compensativo” del risarcimento danni, viceversa, l’arbitro di equità, non essendo tenuto a rendere formale omaggio alle regole scritte – sempre che non si tratti di norme di applicazione necessaria (oggi art. 829, comma III, parla di ordine pubblico) -, può adottare ragionamenti diversi e pervenire a risultati differenti. In definitiva l’arbitro di equità può giungere alla sua decisione con maggiore libertà, avendo facoltà di trascurare il formante legislativo, ma questa constatazione lascia aperto il quesito circa l’individuazione del criterio cui lo stesso arbitro potrebbe ispirarsi. Prima di esaminare le tesi maggiormente diffuse sul criterio ispiratore del giudizio di equità, vanno analizzati due orientamenti che godono di consenso minoritario ma significativo: quello imperniato sulla convinzione che il giudizio di equità possa condurre ad un responso più “clemente” o “moderato” rispetto al giudizio di diritto, nonché quello seguito da coloro i quali intravedono nell’autorizzazione di cui all’art. 822 c.p.c. l’attribuzione agli arbitri del potere di imporre una transazione ai litiganti. La prima convinzione potrebbe forse essere giustificata con riferimento ad un giudizio penale, in cui il giudice irroga, in nome dello Stato, una pena al cittadino, ma non pare poter trovare collocazione nel giudizio civile, caratterizzato dalla presenza di (almeno) due privati in reciproca contrapposizione. In questa situazione, l’eventuale riduzione della condanna di una delle parti, dovuta a ragioni compassionevoli, provocherebbe una immotivata compressione delle ragioni della controparte. Il secondo indirizzo appare, invece, smentito non solo dall’osservazione che, sul piano dell’interpretazione della volontà delle parti, queste generalmente “non vogliono una transazione, cioè un superamento della lite attraverso reciproche concessioni imposte dall’arbitro, ma una “decisione” della lite; con altre parole vogliono conoscere chi ha torto e chi ha ragione con le relative conseguenze sui loro rapporti”, ma dalla stessa legge. L’art. 829 c.p.c., nella parte in cui, trattando di motivi di impugnativa comuni al lodo di equità, definisce il procedimento arbitrale come un “giudizio” (v. art. 829, comma 1°, n. 2), impone agli arbitri di accogliere o respingere le domande dei litiganti sulla base dell’accertamento dei fatti e della valutazione (giuridica o equitativa) degli stessi, mentre – com’è noto – la transazione consiste in reciproche concessioni delle parti da “intendersi in relazione alle posizioni da esse assunte nella lite (posizione di pretesa; posizione di contestazione), e non in relazione alla situazione giuridica preesistente quale effettivamente è”. Le tesi circa la natura del giudizio di equità che trovano i maggiori consensi in dottrina sono sostanzialmente riconducibili a tre. Per la prima, cd. soggettiva, l’arbitro d’equità decide seguendo i dettami della propria coscienza in ordine allo specifico caso concreto, applicando, cioè, il personale senso di giustizia. Per la seconda, cd. oggettiva, l’arbitro d’equità applica regole diffuse nella comunità e, perciò, preesistenti al sorgere della controversia. A queste si è affiancata un’opinione, definibile come “riduzionista”, in forza della quale il giudice d’equità dovrebbe attenersi al diritto positivo, affinandolo e plasmandolo – quando occorra – sul caso da decidere. La versione soggettiva viene criticata perché consente una pronuncia arbitraria e “improvvisata”. Essa, peraltro, potrebbe essere ritenuta contra legem se si condivide l’opinione che ritiene operanti anche per gli arbitri di equità il dovere di esporre “le ragioni di equità sulle quali è fondata la decisione” di cui all’art. 118, comma 2°, disp. att. c.p.c. Quest’obbligo, infatti, risulterebbe aggirato qualora si consentisse agli arbitri di motivare il proprio lodo con espressioni inconsistenti che facciano mero riferimento alla coscienza dei giudicanti. L’obiezione potrebbe, tuttavia, essere superata, qualora gli arbitri, pur decidendo sulla base delle proprie personali convinzioni, abbiano l’accortezza di far precedere il dispositivo dalla previa declamazione della regola (o delle regole) da applicarsi, formulata argomentando a ritroso dal dispositivo stesso (ESEMPIO: qualora l’arbitro fosse convinto, nel concreto caso sottoposto al suo esame, di dover assecondare la richiesta di revisione del contenuto del contratto formulata da una parte, potrebbe affermare l’esistenza di una regola di equità, in forza della quale il rapporto contrattuale deve essere adeguato in presenza di una determinata situazione di fatto, descritta con termini generali, ma tale da ricomprendere anche quella oggetto di giudizio). La diffidenza nei confronti di “una giustizia sommaria e intuitiva” costituisce uno dei passaggi di quella indagine storica e comparativa che conclude per la “integrazione immanente dell’equità nel diritto” e nega, quindi, che l’arbitrato di equità rappresenti una “alternativa” all’arbitrato di diritto. La tesi riduzionista comportava, però, problemi di coordinamento con il tenore legislativo, perché l’uso della disgiuntiva “o” nel capoverso del vecchio art. 829 c.p.c. sembrava presupporre una differenza tra decisione secondo equità e lodo [di diritto] non impugnabile. Analogamente, il primo comma dell’art. 834 c.p.c. prevedeva – con una espressione similare all’art. 829 – una distinzione tra l’ipotesi in cui le parti abbiano stabilito le norme da applicarsi al merito della controversia e quella nella quale sia stato conferito agli arbitri il potere di pronunciarsi secondo equità. Oggi che l’art. 829 ha escluso l’impugnabilità di tutti i lodi la alternativa tra lodo di diritto (naturalmente non impugnabile per violazione di regole di diritto) e lodo di equità (anch’esso naturalmente non impugnable per violazione di regole di diritto), la dualità rimane fissata dall’art. 822 c.p.c. Logica conseguenza dell’opinione riduzionista è che, anche nel giudizio di equità tra appartenenti a diversi Stati, gli arbitri devono individuare una legge statuale applicabile. Ma tale conclusione pare collidere con l’idea che la stipula, tra due contraenti di diversa nazionalità, di un patto compromissorio per arbitrato di equità, possa significare volontà di risolvere le controversie in modo “giuridicamente neutrale” ispirandosi a principi e regole diversi da quelli applicati dai giudici dell’uno o dell’altro Stato. L’orientamento maggiormente diffuso nella moderna dottrina pare essere quello cd. oggettivo. Anche questo indirizzo appare ispirato dall’esigenza di sottoporre a controllo l’operato degli arbitri di equità, ma, diversamente dall’indirizzo riduzionista, individua le preesistenti regole di equità prescindendo dal legame con l’ordinamento codificato di un determinato Paese. La tesi oggettiva, inizialmente consistente in riferimenti di carattere vago a regole tratte dalla “cultura economica e sociale del tempo”, è stata successivamente approfondita da Benatti, giungendo al riconoscimento di principi che sono alla base di tutti gli ordinamenti evoluti. In questo ambito, si sono identificati i principali criteri formanti l’equità: ”- nel principio di buona fede negli usi onesti del commercio nel principio di ragionevolezza nel principio di efficienza”. Alla possibile critica per cui tali precetti sono pur sempre espressi in termini generali, così da rendere difficoltoso al giudice dell’impugnazione eventualmente adito dal soccombente sottoporre a controllo
, con un minimo grado di effettività, la concreta soluzione trovata dagli arbitri e alla conseguente constatazione che la loro individuazione non riduce in modo sensibile i margini di “soggettività” della decisione arbitrale, si può replicare che questi criteri: a) hanno ispirato numerose norme di diritto positivo dei diversi ordinamenti, sia di diritto continentale sia di common law; b) sono stati oggetto di studio da parte degli autori di tutti i Paesi cd. occidentali; c) hanno dato luogo ad una vasta opera di concretizzazione da parte dei giudici delle diverse Nazioni. Sotto un diverso profilo, si osserva, sempre nell’ottica oggettiva, che, se l’arbitro di equità deve applicare regole pre-poste, allora le decisioni da questi emesse potrebbero rappresentare “precedenti”, suscettibili di essere utilizzati per definire casi futuri. In conclusione, a differenza della tesi soggettiva, le altre due impostazioni (riduzionista ed oggettiva) permettono di sottoporre a controllo il lodo di equità. La verifica, tuttavia, non pare poter consistere nell’ammettere l’impugnazione per nullità nell’ipotesi di violazione di norme di diritto, nell’ambito della tesi riduzionista, ovvero nell’ipotesi di deroga alle regole applicative dei criteri di buona fede, usi onesti, ragionevolezza ed efficienza, anche enunciate in massime ricavabili da precedenti arbitrati di equità, nell’ambito della tesi oggettiva. Il tipo di controllo forse esercitabile concerne la contraddittorietà della motivazione (arg. ex art. 829, comma 1°, n. 11, c.p.c.: anche se questa norma, per il vero, parlava e parla di “contraddittorietà tra le disposizioni”) e, cioè, la coerenza interna della stessa. La scelta della tesi riduzionista, ad esempio, comporta il dovere di riportare l’indicazione della norma di diritto nazionale applicata e le regioni del suo eventuale “adeguamento”. L’opzione oggettiva, invece, costringe all’individuazione delle regole preesistenti da utilizzare ed obbliga l’arbitro a conclusioni logicamente consequenziali alle regole stesse. Infine, l’indirizzo oggettivo presenta, rispetto all’opinione riduzionista, la caratteristica di fornire una risposta all’esigenza, sempre più sentita nella recente epoca di globalizzazione degli scambi, di risolvere le liti mediante un giudizio non “provinciale”, fondato su regole comunemente accettate. In definitiva la scelta dell’equità comporta maggior libertà di motivare in capo agli arbitri e rende maggiormente difficile l’impugnativa per contraddittorietà della motivazione. Perché se devi motivare in diritto comunque si potrebbe prospettare una contraddittorietà, mentre se motivi in equità introduci delle varianti difficilmente discutibili. Se si vuole l’equità è meglio usare questo sostantivo o suoi derivati ed è meglio evitare la locuzione “amichevoli compositori” che può comportare dubbi interpretativi. L’ULTIMO elemento da negoziare di cui ci occupiamo è arbitrato rituale o irritale. Sotto il vigore del codice del 1865 si è manifestata l’esigenza di ricorrere ad una forma atipica di arbi­trato, allo scopo di evitare il deposito del lodo (art. 24 c.p.c.), nonché la pubblicità e gli incombenti di carattere fiscale che ne derivavano. Dopo un’iniziale diffidenza, nei primi del Novecento la giurisprudenza si pronunciava per la liceità della figura e, da allora, non mutava più avviso. A distanza di un secolo dalla comparsa dell’arbitrato irrituale, sarebbe ragionevole attendersi che il dibattito sulla sua natura fosse giunto a soluzione, tenuto pure conto dell’implicito riconoscimento della ammissibilità di tale forma di arbitrato attuato dalla legge. La discussione, invece, prosegue e, negli ultimi decenni, è divenuta ancor più vivace. Secondo l’opinione che ha dominato nel periodo tra la nascita della figura sino alla novella del 1983, l’arbitrato irrituale consisterebbe nel conferimento ad un terzo arbitratore del compito di stabilire il contenuto di una transazione fra le parti. La costruzione va incontro all’esigenza, sentita dagli interpreti, di consentire la delega a privati del potere di risolvere le controversie, evitando le forme e gli oneri dell’arbitrato disciplinato dal codice di rito, ma senza incorrere nella violazione del dogma di riserva allo Stato della giurisdizione. L’ostacolo è stato per l’appunto aggirato qualificando tale arbitrato come un istituto contrattuale – dominato, perciò, dalla privata autonomia – risultante dalla combinazione di due convenzioni tipiche e lecite quali l’arbitraggio e la transazione. A prescindere dal rilievo che solitamente le parti di una convenzione arbitrale irrituale non intendono deferire al terzo il compito di imporre una transazione, ma di accertare chi abbia ragione e chi torto, seri dubbi si possono sollevare in ordine alla liceità di un patto del genere. In questa configurazione dell’accordo arbitrale irrituale i poteri attribuiti al terzo sono non suscettibili di controllo. Nelle ipotesi di arbitraggio in cui il terzo è chiamato ad individuare una o anche entrambe le prestazioni di un contratto oneroso, è possibile individuare un rapporto di corrispettività tra le stesse e valutare quindi l’equità della determinazione medesima; se, invece, l’arbitratore viene chiamato a stabilire l’ammontare delle “reciproche concessioni” ex art. 1965 c.c., non è consentito alle parti di ottenere una revisione dell’arbitramento da parte del giudice, essendo impossibile stabilire l’equità o l’iniquità dell’aliquid datum e dell’aliquid retentum, né in rapporto fra loro né attraverso un raffronto con l’ipotetica, giusta composizione della lite. Il contenuto di una transazione dipende, infatti, da un insieme di variabili rimesse alla valutazione soggettiva dei contraenti; ciascuna delle parti, cioé, per decidere quali concessioni fare all’altra, formula mentalmente le considerazioni più disparate: valuta il rischio dell’esito di un giudizio, i costi e la durata dello stesso, il conseguente pregiudizio psicologico della lite in rapporti di carattere familiare, sociale, culturale o commerciale, ecc. Ne consegue che anche una enorme concessione di una parte a fronte di una minima concessione dell’altra potrebbe concretare una transazione conveniente. Né sarebbe ipotizzabile consentire l’impugnazione della transazione compiuta dall’arbitro irrituale sull’assunto che le reciproche dazioni o rinunce non siano eque, in quanto non corrispondenti all’esito di un ipotetico giudizio sulla lite. Introdurre un simile controllo significherebbe permettere alle parti di devolvere all’autorità giudiziaria proprio quell’attività – giudizio sulla questione litigiosa – che l’ordinamento ha inteso evitare quando ha riconosciuto ai privati la facoltà di transigere. All’obiezione dell’assenza di strumenti di verifica dell’operato transattivo dell’arbitro irrituale si potrebbe peraltro replicare che è pur sempre lecito rimettersi al “mero arbitrio” dell’arbitratore, limitando, cioè, le possibilità di impugnazione del responso all’ipotesi di sua “mala fede” (art. 1349, comma II). Così come è consentito, allora, che le parti affidino ad un terzo la determinazione di una prestazione contrattuale senza la possibilità di reagire nel caso di sproporzione con la controprestazione, similmente appare ammissibile – pur con determinati limiti – la devoluzione ad un arbitratore del compito di stabilire, con altrettanta discrezionalità, il datum ed il retentum di una transazione. Le perplessità in ordine alla validità di un arbitraggio in una transazione – che per logica necessità non può che essere di mero arbitrio – hanno, in realtà, un’altra origine e riguardano solo la convenzione irrituale che abbia ad oggetto generiche controversie future ed eventuali, i cui estremi siano ignoti alle parti. In altri termini, se non sussistono motivi per impedire la conclusione di una convenzione che si potrebbe chiamare “compromesso transattivo”, in quanto concernente liti già sorte e conosciute dalle parti, si pongono seri dubbi in ordine alla validità di una “cla
usola compromissoria transattiva”. Qualora la controversia sia già nata, la figura dell’arbitrium merum in una transazione appare effettivamente in grado di soddisfare la frequente esigenza pratica dei contendenti che si trovino d’accordo sui confini, minimi e massimi, delle rispettive pretese, ma desiderino evitare costose consulenze tecniche di conferire ad un terzo l’incarico di determinare – entro i suddetti confini – il contenuto delle reciproche concessioni, riconoscendogli estrema libertà di azione (mero arbitrio, per l’appunto). L’arbitraggio transattivo introdotto da compromesso è, dunque, valido e risulta impugnabile quando: a) il terzo abbia esorbitato dai limiti prefissati dalle parti; b) il terzo abbia agito in mala fede; c) ricorrano i vizi di cui agli artt. 1965 ss. c.c. La ragione per negare la validità di una clausola compromissoria transattiva consiste nel divieto fatto ai privati di rinunciare – prima che sorga contestazione – al futuro diritto di agire in giudizio, per tutelare i propri diritti mediante un regolare processo, ordinario o arbitrale che sia. A quest’ultimo riguardo, sono numerosi i precetti da cui indurre l’esistenza di un generale principio di indisponibilità del futuro diritto di agire in giudizio: l’art. 1229 c.c., diretto a negare validità alla rinuncia di un contraente al diritto di ottenere giudizialmente il risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento volontario o gravemente colpevole della controparte prima che il diritto a tale risarcimento sorga; l’art. 2698 c.c., il quale vieta l’inserimento in contratto di patti modificativi dell’onere della prova attraverso i quali una parte rinunci indirettamente al proprio diritto litigioso, prima che la controversia sia nata; l’art. 2965 c.c., che prevede la nullità di termini convenzionali di decadenza eccessivamente ristretti. Anche le regole di formazione giurisprudenziale, secondo cui il patto omisso medio (art. 360, comma II, c.p.c.) è nullo se concluso prima della pronuncia della sentenza di primo grado ovvero per la quale non è consentito rinunciare al requisito dell’imparzialità degli arbitri anticipatamente al sorgere della lite, rappresentano estrinsecazione del principio per cui è vietato stipulare accordi, apparentemente seri e vincolanti, ma che, una volta sorta la controversia, non consentano alle parti di esercitare i diritti oggetto degli accordi stessi. In definitiva, in tema di potere di azione – giudiziaria o arbitrale – l’autonomia privata non è illimitata. L’ordinamento, al fine di proteggere i cittadini dalla loro ingenuità o dalla prepotenza di controparti contrattuali, nega validità a tutti quei patti con i quali, senza voler coscientemente disporre del diritto sostanziale, si rinunci anticipatamente a far valere tale diritto in giudizio, qualora la controparte non dovesse in futuro rispettarlo. Per queste ragioni, risulta inammissibile anche la clausola compromissoria transattiva e, cioé, il patto con cui le parti rinuncino a sottoporre ad un regolare giudizio le controversie future ed eventuali insorgenti da un determinato contratto o rapporto, ma si impegnino preventivamente a sottostare ad una transazione compiuta da un terzo sulle liti stesse, la quale si potrebbe concretare in una enorme rinuncia a carico di una parte a fronte di una irrisoria concessione della controparte. Così come non è ammissibile inserire, in un normale contratto, una clausola di irresponsabilità per dolo o un patto modificativo dell’onere della prova tale da rendere impossibile l’esercizio del diritto, parimenti non appare lecito prevedere che, in caso di insorgenza di una controversia, questa venga risolta attraverso il responso transattivo di un terzo, il quale, non dovendo procedere ad un giudizio, potrebbe anche affidarsi – per determinare le reciproche disposizioni – al lancio di una moneta. La validità di una clausola siffatta potrebbe essere ammessa solo nell’eventualità – mai verificatasi per quanto risulta dalle motivazioni delle sentenze pubblicate – in cui, dal tenore della convenzione arbitrale, dovesse emergere che le parti sapessero perfettamente, al momento della conclusione del contratto, quale controversia sarebbe sorta in futuro e conoscessero i limiti minimi e massimi delle reciproche concessioni e, quindi, intendessero coscientemente accettare il rischio dell’arbitrario responso del terzo. Né, traendo spunto dall’osservazione secondo cui l’efficacia dell’arbitrato irrituale rimane confinata sul piano privatistico, cosicché la transazione composta dal terzo potrebbe, comunque, essere sottoposta al vaglio del giudice ordinario fruendo di tre gradi di giudizio, si potrebbe sostenere che la clausola compromissoria transattiva non rappresenti una rinuncia alla tutela processuale ordinaria e sia, di conseguenza, valida. Si tratterebbe, infatti, di un ragionamento formalistico, destinato a cadere per effetto del rilievo che la transazione determinata dal terzo risulta impugnabile unicamente per mala fede dell’arbitratore o per i limitati motivi di invalidità del contratto di transazione, senza la possibilità per il giudice del riesame di valutare la corrispondenza delle reciproche dazioni e rinunce rispetto agli effettivi diritti dei contendenti. L’impossibilità di impugnare la soluzione della lite anche nell’eventualità di lesione macroscopica dei diritti sostanziali di uno dei litiganti fa, altresì, comprendere come la tesi che qualifica l’arbitrato libero come un arbitraggio transattivo finisca con il ledere gli stessi interessi cari ai suoi ideatori. L’opinione, nata per non scalfire il dogma della riserva della giurisdizione allo Stato in base al quale le uniche soluzioni delle controversie ammissibili sarebbero quelle del processo ordinario e dell’arbitrato rituale, si risolve, sul piano concreto, in una rinuncia anticipata dei privati a far valere i propri diritti litigiosi mediante un regolare processo. Chi ritenga che il modo di composizione delle controversie serva per garantire un’ordinata convivenza civile e sia perciò necessario circondarlo di garanzie a tutela del pubblico interesse, non può poi ammettere accordi con cui i consociati rinuncino a priori ad un regolare processo – ordinario o arbitrale -, vincolandosi a soggiacere, senza possibilità di reazione, all’arbitraria determinazione di un terzo transattore. In conclusione, l’arbitrato irrituale transattivo non risponde alla frequente volontà delle parti ed è forse illecito. La riforma del 2006 sembra peraltro avere radicalmente escluso questa ipotesi, disponendo con norma che pare imperativa (art. 808-ter c.p.c.) che l’arbitrato irritale pur sfociando in una “determinazione contrattuale” (torneremo su questa infelice espressione) può essere impugnato per violazione di tipiche regole di giudizio quali quelle contenute nel n. 1 e nel n. 5 dello stesso articolo). Anche il n. 1 non si concilia con la transazione (v. art. 1965 cpv.: cd. transazione mista). Secondo una diversa opinione, l’arbitrato irrituale consisterebbe nell’arbitraggio in un negozio di accertamento. Questa tesi, fondata sulla corretta osservazione che le parti, nella grande maggioranza dei casi, vogliono dagli arbitri irrituali la risoluzione delle proprie controversie non attraverso una transazione, bensì accertando l’esatto andamento dei fatti, nonché la giusta regola da applicare ai fatti stessi, si prefigge – al pari della precedente – lo scopo di mantenere l’istituto dell’arbitrato irrituale in un ambito privatisco, caratterizzato da autonomia (art. 1322 c.c.), e di evitare, quindi, un possibile conflitto con il principio di riserva alla legge delle deroghe alla giurisdizione statuale. Tale configurazione non incorre, però, nelle critiche che solleva la teoria dell’arbitraggio in una transazione, poiché, a differenza di questa, implica l’obbligo per l’arbitratore di “accertare” l’esatta situazione di fatto e di diritto e comporta, pertanto, la possibilità di impugnare il suo responso in caso di erroneità o iniquità per motivi di merito e di legittimità. Qualificare l’arbitrato irrituale come un arbitraggio in un negozio di a
ccertamento, quindi, oltre ad avere il pregio di adeguare l’istituto alla più frequente volontà delle parti, rende altresì ammissibile la stipulazione di un patto compromissorio per controversie future. Presupposto di tale impostazione è, ovviamente, la liceità del negozio di accertamento. In proposito si è, invece, scritto che dal sistema positivo emergerebbe un divieto per i privati di compiere attività di accertamento: questa sarebbe istituzionalmente riservata all’autorità giurisdizionale, così come, simmetricamente, sarebbe inibito al giudice, salvo rare eccezioni, di svolgere attività dispositiva. L’osservazione non pare, tuttavia, assumere rilievo nella discussione in oggetto, in quanto l’attività di accertamento viene in questo caso affidata ad un terzo (arbitratore). In realtà, l’obiezione che si può sollevare in ordine alla costruzione dell’arbitrato irrituale come arbitraggio in un negozio di accertamento è di metodo. L’accostamento delle figure dell’arbitraggio e del negozio di accertamento determina, in sostanza, l’affidamento al terzo del compito di accertare la situazione di fatto controversa e di indicare le norme giuridiche ad essa applicabili; ciò altro non significa se non demandargli il compito di emanare un giudizio analogo a quello del giudice o dell’arbitro rituale, con conseguente operatività dei limiti, ricavabili dal sistema, cui deve soggiacere ogni patto diretto a disciplinare il potere di azione davanti ad un organo pubblico o privato. Per tale ragione appare più conforme alla realtà e, quindi, preferibile la tesi che qualifica l’arbitrato libero come un vero e proprio giudizio. Come rilevava la moderna dottrina anche ante ultima riforma, i privati, quando stipulano una clausola compromissoria irrituale, perseguono normalmente l’intento di risolvere le loro controversie future ed eventuali tramite una decisione resa da un terzo mediante un regolare processo, derogando, però, alla disciplina dell’arbitrato rituale. La costruzione come “giudizio privato”, benché più convincente sul piano dell’interpretazione della volontà delle parti, lascia tuttavia irrisolti i problemi di meritevolezza posti dalla atipicità (art. 1322 cpv. c.c.) di questa figura di arbitrato. Per poter accogliere questa tesi occorre, quindi, verificare se le deroghe alla disciplina dell’arbitrato rituale volute dai compromettenti siano compatibili con la disciplina imperativa dettata dall’ordinamento giuridico per ogni tipo di giudizio. La costruzione come giudizio privato ha trovato conferma nella riforma (art. 808-ter, comma II). Oggi il problema delle ulteriori ragioni di impugnabilità del lodo irrituale è rimasto aperto: visto il disposto dell’art. 808-ter, comma II, n. 4. Quali sono le condizioni di validità del lodo? Prima di questa riforma il dominante orientamento giurisprudenziale era nel senso di sottoporre il lodo irrituale unicamente alle cause di annullamento di cui agli artt. 1427 s.s., sul presupposto della attribuzione al lodo stesso della qualifica di “contrattuale”. La tesi conduce praticamente a privare il soccombente di ogni potere di impugnativa se non nei casi, rari e di difficile prova, di falsa rappresentazione della realtà, violenza o dolo da parte degli arbitri. Addirittura alcune sentenze escludono l’impugnativa per violazione di regole imperative. Questo indirizzo è, peraltro, discutibile già con riguardo alla premessa su cui si basa, non risultando corretto né sul piano logico né sul piano del diritto positivo attribuire natura contrattuale al lodo irrituale. In proposito, sin dalla famosa sentenza emessa della Cassazione di Torino nel 1904, l’argomento per sostenere la legittimità dell’arbitrato libero è stato il seguente: così come ai privati è concesso di transigere o di comporre mediante accertamento le proprie controversie, parimenti deve poter essere loro consentito affidare tali attività ad un terzo. Questo ragionamento, già di per sé criticabile non essendo sicuro che alle parti spetti il potere di accertare, ha condotto a considerare il risultato dell’attività del terzo come “un contratto tra le stesse parti concluso”. Sul piano fattuale è incontestabile che il lodo irrituale, in quanto responso reso da un terzo, sia qualcosa di differente da un contratto concluso tra le stesse parti. Come avviene per l’arbitraggio, infatti, anche nell’arbitrato libero i contraenti ricorrono al terzo, affinché questi svolga un’attività che essi non hanno voluto o non sono riusciti ad espletare. Anzi, nel caso dell’arbitrato irrituale, se si condivide la premessa che non possa essere riconosciuta al negozio di accertamento concluso inter partes efficacia preclusiva, il terzo viene chiamato a compiere un atto interdetto alle stesse parti. La possibilità di sottoporre il responso irrituale allo stesso trattamento del contratto viene esclusa anche da ragioni di carattere storico e sistematico. Dall’art. 1349 c.c., con cui il legislatore moderno ha respinto la tesi elaborata sotto il codice del 1865 che propugnava l’inimpugnabilità dell’arbitramento iniquo sul presupposto della sua assimilazione con l’ipotesi della determinazione del contenuto del contratto ad opera diretta dei contraenti, si può ricavare un principio generale in forza del quale i regolamenti privati devono essere trattati in modo diverso a seconda che siano stati pattuiti personalmente dalle parti oppure siano stati elaborati con il contributo di un terzo. Il principio viene altresì confermato dal trattamento riservato al cd. “biancosegno”, fenomeno da cui, fra l’altro, trarrebbe origine l’arbitrato irrituale. In questa fattispecie, lo scopo inizialmente perseguito dalle parti di far sì che il foglio precedentemente sottoscritto e successivamente riempito da un terzo venga considerato come formato dai contraenti medesimi non esclude la possibilità per le parti stesse di contestare l’opera del terzo per aver contravvenuto alle istruzioni impartitegli (arg. anche ex art. 486 c.p.). L’intento espresso dai compromettenti di autorizzare gli arbitri irrituali ad emettere un lodo che debba “valere come un contratto concluso dalle stesse parti” appare, quindi, velleitario. Il lodo, una volta emesso, potrà, nonostante questa dicitura, essere impugnato davanti al giudice ordinario almeno per i motivi basilari previsti dal cpv. dell’art. 808-ter. La riforma dell’art. 808-ter rubricato arbitrato irrituale ha inteso limitare l’uso di questa forma di arbitrato e disciplinarne l’impugnazione (art. 808 ter cpv.). Il secondo intento può dirsi riuscito (salvo il n. 4 che lascia aperta la discussione: tesi di Benatti) e va condiviso. Il primo intento secondo me non riuscirà perché c’è il rischio che i giudici ritengano che si verta in arbitrato irrituale negli stessi casi in cui lo si riteneva prima (clausole che parlano espressamente di arbitrato irrituale e clausole che fanno riferimento a “varrà come un contratto tra le stesse parti concluso” e simili). L’unico effetto è la negazione dell’orientamento giurisprudenziale (incredibile) che stava per il vero perdendo di credibilità, secondo cui nel dubbio pro arbitrato irrituale.

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