Gli eccessi della giurisprudenza: il caso del frazionamento del credito

Ribaltando un proprio precedente (Cass., SS.UU., n. 108/2000), la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 23726/2007 ha ritenuto illegittimo, perché contrario alla regola di correttezza e buona fede, il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario: così, ad esempio, non è (più) consentito richiedere distinti decreti ingiuntivi per separate fatture relative ad un credito discendente da un unico contratto, non solo contemporaneamente, ma nemmeno l’uno dopo l’altro.

Sulle ragioni invocate da tale pronuncia (e sulle relative implicazioni di “sistema”) si è incentrato l’intervento del Prof. Fiorenzo Festi ad un recente Convegno tenutosi a Modena, e di cui qui di seguito pubblichiamo ampi stralci.

[…]

Gli eccessi della giurisprudenza: il caso del frazionamento del credito
(intervento del Prof. Avv. Fiorenzo Festi al convengo “La regola di buona fede e le sue recenti applicazioni nel diritto civile e nel diritto commerciale”, Modena, 14/11/2008)
Sommario: 1. Premessa.- 2. Gli eccessi della giurisprudenza.- 3.- La Verwirkung. – 4. Il frazionamento del credito.

1.- Come sapete e come hanno ricordato i relatori che mi hanno preceduto, alla regola di correttezza e buona fede oggettiva soggiace non solo il debitore ma anche il creditore: lo dice espressamente l’art. 1175 c.c.

Quindi, in forza del dovere di buona fede si ritiene che anche il soggetto attivo del rapporto sia soggetto ad obblighi  e, inoltre, che il medesimo soggetto attivo incontri limiti nell’esercizio dei suoi diritti o nell’esercizio dei suoi poteri (o diritti potestativi per chi riconosce l’utilità della categoria), limiti derivanti per l’appunto dal dovere di comportarsi lealmente.

Il tema coincide con il problema dell’abuso del diritto nell’ambito del rapporto obbligatorio; secondo l’impostazione preferibile, infatti, la regola di buona fede oggettiva costituisce la norma attraverso la quale l’ordinamento riconosce l’esistenza della categoria dell’abuso del diritto nel rapporto obbligatorio.

La mia breve relazione avrà ad oggetto quest’ultimo profilo e, in particolare, esaminerò due decisioni nelle quali la Cassazione ha utilizzato il canone di buona fede come “limite all’esercizio di poteri privati”.

2.- Prima però devo completare l’introduzione.

Come sapete e come ha ricordato il Prof. Benatti nella sua relazione, la giurisprudenza italiana durante i primi trenta anni di applicazione dell’attuale codice civile non ha praticamente utilizzato la regola di b.f., salvo che tale regola avesse trovato riscontro in una norma specifica dello stesso codice.

Negli ultimi decenni, invece, i ns. giudici stanno progressivamente applicando con sempre maggiore frequenza e larghezza la regola di correttezza.

L’attuale atteggiamento della giurisprudenza viene salutato con favore, perché le regole di buona fede – artt. 1175, 1375, 1337 e 1366 c.c. – sono norme giuridiche a tutti gli effetti. Si è anche ricordato che le clausole generali e in particolare il canone di b.f. costituiscono vere e proprie “valvole” del sistema, norme cioé che consentono alla giurisprudenza di affrontare i mutamenti sociali, di tenere il passo con la modernità.

Sarà vero, ma a me ciò che più preoccupa del diritto civile di questi anni, del diritto civile del 2000, non è l’incapacità dei Giudici di affrontare il nuovo, quanto la progressiva diminuzione della certezza del diritto e conseguentemente della prevedibilità delle decisioni giudiziarie.

In altre parole, mi sembra che il sistema si stia progressivamente scardinando per effetto soprattutto di due circostanze:
a) il fatto che nelle numerose recenti leggi speciali il legislatore usi frequentemente una terminologia diretta a raggiungere risultati di brevissimo periodo e non coerente con i concetti del codice civile e del sistema nel suo complesso;
b) il complessivo attuale scadimento degli studi universitari e conseguentemente della formazione dei nuovi giudici e dei nuovi avvocati.
Tali fatti stanno come dicevo incrinando la struttura dell’ordinamento: tutti i dogmi, compresi quelli utili e corretti, si stanno perdendo.

Comprenderete che in questa situazione di crisi del sistema, il timore che attraverso la clausola generale di buona fede si possa pervenire a decisioni arbitrarie ed imprevedibili non può che aumentare.

Occorre rimarcare che la clausola generale di b.f. non può costituire un mezzo attraverso il quale il Giudice impone le proprie personali visioni politiche, sociali ed economiche. Ogni soluzione fondata sulla regola di correttezza, pur nuova, deve sempre essere legata da un filo di continuità ai precedenti casi giurisprudenziali di applicazione della buona fede e deve essere coerente con il sistema.

Vi dirò francamente che, ad una situazione in cui dovessero verificarsi altri casi di eccesso nell’applicazione della regola di b.f., come quello della sentenza delle Sezioni unite sul frazionamento del credito di cui parlerò dopo, preferisco personalmente la situazione degli anni ‘60 e ’70, in cui il canone di correttezza non veniva nella sostanza applicato.

3.- Veniamo ora alla ns. giurisprudenza. Ho esaminato le sentenze degli ultimi anni e ho rinvenuto – com’era lecito aspettarsi – luci ed ombre.

In particolare, ho rinvenuto due decisioni della Cassazione, la prima, sulla decadenza da ritardo sleale nell’esercizio del diritto, che è a mio avviso da approvare, la seconda, sull’inammissibilità del frazionamento del credito, che suscita, invece, molti dubbi.

La prima è Cass. n. 5240 del 15.3.2004, secondo cui il ritardo nell’esercizio del diritto, anche se imputabile al titolare e tale da ingenerare nel debitore il ragionevole affidamento che il diritto non verrà più esercitato, non può condurre al rigetto dell’azione di esercizio del diritto stesso salvo che vi sia stata una inequivoca rinuncia e salvo naturalmente che sia decorso il termine di prescrizione.

Apro una breve parentesi. Uno degli esempi più eclatanti di eccesso della giurisprudenza tedesca nell’applicazione della b.f., ricordato anche dal Prof. Benatti nella sua relazione, è la figura della “perdita del diritto per ritardo sleale nel suo esercizio”; per gli addetti ai lavori: la Verwirkung. Ebbene in Germania, ancor prima del decorso del termine di prescrizione, se si ritarda ad esercitare un diritto ingenerando nella controparte la ragionevole convinzione che non verrà più esercitato, si può perdere il diritto stesso in forza dell’applicazione giurisprudenziale della regola di b.f.

La Cass. n. 5240/2004 dice correttamente che da noi questo istituto non può essere applicato. Afferma che in Italia vige invece il principio per cui le rinunce non si presumono, sicché per ricavare da un comportamento la volontà di rinuncia occorre che la condotta sia inequivoca. Quindi non può bastare il semplice ritardo, di per sé indice anche di mera tolleranza, ma occorrono altri fatti da cui dedurre la volontà di rinunciare. Da noi il ritardo di per sé può determinare la perdita del diritto solo qualora sia spirato il termine di prescrizione.

La decisione va a mio avviso approvata. Immaginate l’incertezza del diritto che si avrebbe qualora fosse accolta questa figura: di quanto deve essere il ritardo per determinare la perdita? Verrebbe inoltre fomentata la litigiosità: tutti  agirebbero subito in giudizio per la paura di perdere il diritto, scoraggiando così la tolleranza, che è invece benefica per il sistema.

4.- Dopo aver visto le luci vediamo ora le ombre.

Veniamo, infatti, all’oggetto principale di questa relazione e cioè alla ormai famosa sentenza delle Sezi
oni Unite n. 23726 del 15.11.2007.

Tutti sapete che era discussa la possibilità di dividere in più azioni un credito discendente da un unico titolo. Nel 2000 le Sezioni Unite, con la sentenza n. 108 del 10.4.2000, avevano risolto il dibattito giurisprudenziale e ritenuto lecito il frazionamento giudiziale del credito.

Nel 2007, invece, ribaltando il proprio precedente, le Sezioni Unite hanno concluso – recito testualmente – che <<è contraria alla regola di correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e si risolve in un abuso del processo (ostativo all’esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito unitario» (nella specie trattavasi di distinti decreti ingiuntivi per fattura o gruppi di fatture). In pratica secondo le sez. un. non sarebbe ad es. possibile richiedere distinti decreti ingiuntivi per separate fatture relative ad un credito discendente da un unico contratto, non solo contemporaneamente, ma nemmeno l’uno dopo l’altro.

Il cambiamento di indirizzo viene fondato dalle sez. un., oltre che sulla regola costituzionale della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 cpv. Cost. emanato nel 1999,  proprio sull’aumentato utilizzo giurisprudenziale della regola di buona fede.

La decisione pone evidenti problemi processuali che a me paiono insormontabili: di che natura deve essere la pronuncia di rigetto? Sostanziale, cioè la proposizione di una domanda parziale implica rinuncia al resto del credito? Processuale, cioè la domanda è improponibile?
Ma quale domanda? Tutte quelle successive alla prima? Anche la prima?
Quando si può eccepire, sin da subito o solo dalla seconda domanda?
E poi ancora: come si fa a distinguere il caso del frazionamento volontario dall’ipotesi in cui il creditore chieda meno perché sbaglia a fare i conti? Oppure perché vuole realmente chiedere meno, rinunciando al surplus?

Su questi temi non sono competente ad esprimermi e vi segnalo solo che purtroppo le sezioni semplici hanno già cominciato ad applicare il principio. V. ad es. Cass. n. 15746 dell’11.6.2008, per la quale, in conseguenza del principio espresso dalle ss.uu. del 2007 <<tutte le domande giudiziali aventi ad oggetto una frazione di un unico credito sono improponibili>>. Quindi tutte le domande, non solo dalla seconda in avanti. 

Sotto il profilo dell’esercizio della funzione nomofilattica delle Sezioni Unite, l’inversione di orientamento suscita perplessità. I cambiamenti di indirizzo delle Sezioni Unite, soprattutto se ravvicinati nel tempo, producono conseguenze negative sul piano della uniformità della giurisprudenza. Essi inducono i giudici di grado inferiore a ritenere che il massimo organo possa facilmente mutare impostazione  e rischiano, quindi, di incentivare decisioni delle  corti di merito contrastanti con le direttive della corte di legittimità anche a sez. un. e di indurre conseguentemente i cittadini a tentare sempre la via giudiziale nella speranza di un revirement.

   Venendo al merito, entrambe le massime, sia quella del 2000, favorevole al frazionamento, sia quella del 2007, contraria, risultano criticabili per la loro assolutezza.
 
Il frazionamento del credito in più giudizi può, infatti, essere giustificato da ragioni meritevoli. Quello successivo può essere dovuto semplicemente alla diversa scadenza delle rate di un unico prezzo o, nel caso di credito scaduto, può essere considerato ragionevole, qualora il creditore, di fronte all’insufficienza del patrimonio del debitore e al fine di risparmiare spese legali ed imposta di registro, si limiti a procurarsi un titolo esecutivo per l’entità del credito corrispondente al valore dei beni attuali del debitore, riservandosi di agire ulteriormente quando quest’ultimo dovesse acquisire altre utilità. Più difficile appare l’individuazione di un motivo apprezzabile nel frazionamento contestuale. Pure qui, tuttavia, non può escludersi un interesse meritevole, come, ad esempio, nel caso di un unico credito, in cui una parte sia assistita da maggiori mezzi di prova: si pensi al credito fondato su un contratto verbale che, per una parte, sia stato oggetto di un riconoscimento di debito. Non si vede perché non si possa ricorrere al procedimento monitorio solo per la parte assistita da prova scritta.

Oppure, per converso, l’instaurazione di più azioni per un unico credito può essere ispirata da motivi non commendevoli, quali l’intento di appesantire la situazione del debitore oppure la volontà del difensore del creditore di moltiplicare i propri onorari (situazione oggetto di sanzione secondo il codice deontologico degli Avvocati).

La soluzione corretta appare, quindi, consistere nella valutazione caso per caso delle ragioni che muovono l’attore. Nel caso di scorrettezza, poi, la giusta conseguenza mi pare debba essere la condanna dell’attore al «rimborso delle spese … che, per trasgressione al dovere di lealtà e probità di cui all’articolo 88, ha causato all’altra parte» (art. 92, comma I, parte 2^, c.p.c.), o, nei casi più gravi, al risarcimento del danno per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Tornando alla sentenza delle sez. un., bisogna osservare che mancano appigli normativi per sostenere l’inammissibilità di una domanda frazionata del credito. Da nessuna norma tra quelle citate dalla sentenza si può ricavare questa conclusione.

Si può, invece, rilevare l’esistenza di un precetto il quale esprime un principio incompatibile con la regola di inammissibilità di domande frazionate, almeno per ciò che riguarda le domande di pagamento non contestuali.

La norma è l’art. 1186 c.c. (cd. decadenza dal beneficio del termine: quando il debitore è insolvente o ha diminuito la garanzia il creditore può chiedere subito il pagamento dilazionato), certamente applicabile all’ipotesi di dilazione del pagamenti in più rate, come dimostra l’art. 1525 c.c. (in tema di vendita con riserva della proprietà che dice che se non si paga una sola rata che non superi l’ottavo dell’intero non si perde il beneficio del termine relativamente alle rate successive: quindi se non paghi una rata che supera l’ottavo o se non paghi due rate posso chiedere tutte le rate a scadere).

Tale norma, nel prevedere la possibilità – in presenza di determinate circostanze – di derogare al contratto e di chiedere immediatamente il pagamento delle rate a scadere, implicitamente riconosce al creditore il diritto di agire in giudizio per ciascuna rata, via via che vengano a scadenza. In altre parole, là dove la legge prevede una facoltà è escluso che vi sia un obbligo. Il creditore, cioè, “può” e non “deve” chiedere tutte le rate a scadere.

Ciò chiarito, gli argomenti adottati dalle sez. un.  per mutare indirizzo sono: I) il canone del giusto processo e, in particolare, della ragionevole durata dello stesso di cui al nuovo art. 111 cost.; II) l’evoluzione dell’ordinamento nel senso dell’accentuata importanza della regola di buona fede oggettiva.

Sul giusto processo vi sarebbero molte osservazioni da fare, ma mi limito ad evidenziare il paradosso per cui, in questo caso, sarebbe il debitore a lamentarsi della eccessiva durata di un processo, quando, se lo stesso debitore avesse spontaneamente adempiuto, tale processo non si sarebbe nemmeno svolto.

Il secondo ragionamento, quello imperniato sulla buona fede, merita una riflessione maggiormente approfondita.

Effettivamente, è vero ciò che dicono le sez. un. e cioè che la regola di b.f. è stata per lungo tempo trascurata dai giudici e che solo negli ultimi decenni tale regola è stata valorizzata in sede giurisprudenziale.

Ma è il modo in cui le Sez. Un. hanno applicato il canone di correttezza a non apparire condivisibile.

Nell’esame delle condotte dei soggetti coinvolti
al fine di valutare la lealtà dei comportamenti, infatti, i giudici, per un verso, hanno omesso di considerare che – come si è visto – vi possono essere ragioni meritevoli per frazionare la domanda e, per un altro verso, hanno trascurato di rilevare che il debitore è in grado di evitare ogni pregiudizio adempiendo regolarmente e tempestivamente.

    In altre parole: il più scorretto è il debitore che non esegue i suoi doveri. Rilevo per inciso che la scorrettezza del debitore non esclude che pure il creditore possa incorrere nella violazione del canone di buona fede, se si comporta slealmente, con il conseguente obbligo di rimborsare le spese processuali o di risarcire il danno, come abbiamo visto in precedenza.

Al rilievo – formulato da me, ma anche dalla giurisprudenza precedente favorevole al frazionamento – per cui è il debitore a tenere un comportamento non meritevole, le Sezioni unite contrappongono l’argomento per cui il debitore non è scorretto, perché – testualmente – “potrebbe ritenere di non essere tale”.

    Scusate ma io non capisco. Mi sembrava che il problema fosse quello del “frazionamento” del credito. Per discutere se sia lecito il frazionamento cioè occorre dare per presupposto che il credito esista: se non c’è, non ha senso chiedersi se sia frazionabile.

A parte questo, le Sez. Un., così argomentando, affermano implicitamente la non antigiuridicità della condotta del debitore inadempiente sinché non vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria che “certifichi” la sua soggezione all’obbligazione.

L’asserzione è molto grave, tanto più perché pronunciata dal massimo organo giudicante. Il diritto di agire in giudizio, costituzionalmente garantito (art. 24), non può condurre alla negazione del principio per cui i consociati sono tenuti a rispettare la legge indipendentemente dalla specifica pronuncia di un giudice.

Né alla negazione del principio, derivante dal precedente, per cui la pronuncia giurisdizionale passata in giudicato costituisce la perfetta applicazione della legge.

È sull’esistenza di tale principio che si fonda, ad esempio, la regola secondo la quale il diritto la cui lesione sia stata accertata viene restaurato – ove materialmente possibile (arg. ex art. 2058, comma I, c.c., sul risarcimento in forma spoecifica) – come se non fosse mai stato violato, nonché la condanna alle spese del soccombente secondo l’art. 91 c.p.c.

Su ciò si fonda la conclusione risalente a Chiovenda per cui «l’attuazione della legge non deve rappresentare una diminuzione patrimoniale per la parte a cui favore avviene», con la conseguenza che, a seguito della sentenza, pure le spese di giudizio vengono rimborsate al vincitore e poste a carico del soccombente.

In sintesi, a seguito della sentenza passata in giudicato si considera il soccombente come se avesse avuto torto fin da prima del giudizio.

Si tratta, all’evidenza, di una finzione, in quanto la certezza assoluta sull’interpretazione della legge e sulle sue modalità di applicazione non sussiste né nel nostro né in alcun altro ordinamento. È, tuttavia, una finzione necessaria per un’ordinata convivenza civile e, cioè, per ottenere un elevato grado di rispetto spontaneo della legge. Ciò non esclude che, in determinate situazioni, le questioni in discussione siano così complicate da indurre il giudice a non sanzionare il soccombente e a compensare le spese per “giusti motivi” (art. 92, comma II, c.p.c.), ma ciò deve avvenire solo in casi isolati ed eccezionali.

Se così non fosse e, cioè, se passasse il messaggio lanciato dalle Sezioni unite per cui non è riprovevole il comportamento di colui che rifiuta il pagamento finché non glielo ordini il giudice, si indurrebbero i consociati a non adempiere volontariamente e a ricorrere in giudizio molto più frequentemente di quanto non avvenga già oggi.

In definitiva, il modo con cui la sentenza utilizza la buona fede è criticabile, perché la condotta dell’attore potrebbe in concreto non risultare sleale. Se si vuole formulare una valutazione di correttezza è doverosa una valutazione caso per caso (tipica della valutazione secondo b.f.) delle circostanze rilevanti.

Nel caso in cui il frazionamento della domanda possa considerarsi non rispettoso del dovere di buona fede, inoltre, sarebbe preferibile il ricorso al rimborso delle spese processuali o allo strumento risarcitorio.
 
La sensazione è che il supremo organo giudicante abbia utilizzato la buona fede per raggiungere obiettivi di policy giudiziaria, tra i quali forse quello di evitare che, attraverso l’azione davanti al giudice di pace per importi ridotti, si possa approdare, senza il filtro dell’appello, direttamente in Cassazione (decisione secondo equità da parte del giud. di pace di liti non superiori a 1.500 €: arg. ex artt. 339, comma III, e 360, comma I, c.p.c.).

Ma sul piano della politica giudiziaria il rimedio sembra peggiore del male: se, per sostenere la slealtà del comportamento dell’attore che fraziona il proprio credito, si “scolora” la riprovevolezza della condotta di chi resiste in giudizio avendo torto, si rischia – soprattutto in un ordinamento complesso e carente di certezza come il nostro – di fomentare la litigiosità.

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