“Mi chiamo Lucia Parrilla, ma tutti mi chiamano Clelia”. Aggiunse che le aveva fatto il mio nome il dottor Tronti.
Da cinque minuti ero chiuso in sala riunioni con questa Clelia quando mi chiamò con l’interfono l’avvocato Crisapi. Tu sai che, per prudenza, quando viene un cliente nuovo – soprattutto se donna e carina – voglio sempre la presenza di un mio collaboratore al primo incontro. Ma il fatto che la cliente fosse venuta su segnalazione del presidente del tribunale mi rendeva tranquillo. E poi era venerdì santo, sicché, alle quattro del pomeriggio, mi sentivo in obbligo di liberare i miei collaboratori. Declinai quindi l’offerta di Crisapi e lo pregai di comunicare a tutti che potevano andarsene.
Non posso nasconderti, peraltro, che l’idea di restare da solo in studio con la signora Parrilla mi stuzzicava. La cliente era, infatti, il prototipo della donna affascinante: bionda, alta, magra e con tutti gli accessori nella misura giusta. Aveva un viso serio che, quando si rilassava, si scioglieva in un sorriso malizioso. Era tutta naturale, ad eccezione, forse, dei seni, che mi parevano leggermente sproporzionati rispetto al suo fisico snello.
Mi disse che doveva parlarmi di un fatto molto riservato e mi chiese in che rapporti ero con l’avvocato Lando, il presidente dell’ordine. Gli risposi, con inaspettata confidenza – mi pentii subito della mia sincerità – che mi stava serenamente sulle tasche. Clelia, quindi, continuò e mi riferì che, di mestiere, faceva la hostess, ma non sugli aerei, a terra. Mi disse che che il suo compenso era di 350 euro all’ora, come pubblicizzato dal suo sito internet.
“Però – pensai – se rinasco faccio lo steward di terra”.
Manifestai il mio stupore e lei, altrettanto sorpresa per la mia reazione, mi confessò con quel suo sorriso di essere molto brava ed apprezzata. Mi espose, quindi, di aver avuto un incontro di lavoro di quattro ore, dalle 16.00 alle 20.00 di sabato due febbraio, con l’avvocato Lando, ma che questi non l’aveva remunerata. Mi chiese alfine se potevo recuperare il suo credito: millequattrocento euro dovuti da tariffa.
Da parte mia le chiesi allora di sapere esattamente dov’erano andati e cosa avevano fatto in quelle quattro ore. Clelia mi disse esattamente:
“Mi hanno detto che lei è un avvocato molto intelligente ed astuto – ovviamente mi inorgoglii – per cui sa sicuramente in cosa consiste il lavoro di una hostess di terra, ma se le serve una descrizione analitica, posso dire che siamo rimasti per tutto il tempo nel suo studio. Era sabato e non c’era nessuno oltre a noi. Mi sono spogliata subito ed ho cominciato con un lavoretto di …”.
“BZZZZ”.
Fui salvato dall’interfono: era Elisa che mi diceva di essere l’ultima e mi chiedeva se poteva andare a casa anche lei. Ero talmente imbarazzato che le risposi di sì senza pensare.
Riprendendo il discorso, le dissi che dei particolari avremmo parlato dopo e le chiesi se qualcuno l’avesse vista entrare ed uscire dallo studio Lando oppure se, comunque, qualcuno fosse stato testimone dell’incontro o anche solo dell’appuntamento. Ebbi una serie di risposte negative: Clelia non era in grado di provare alcunché.
Le feci presente gli ostacoli del recupero: a parte le difficoltà di prova, si trattava di un contratto contrario al buon costume, di cui, secondo il nostro codice civile, non poteva essere chiesto l’adempimento in tribunale; solo se l’avvocato Lando avesse spontaneamente eseguito la sua prestazione non avrebbe poi potuto pretendere la restituzione. A quel punto, per darmi tono, ci infilai il solito brocardo “In pari causa turpitudinis …” e sai cosa disse lei? Continuò il proverbio, declamando “melior est condicio possidentis”. Al mio moto di sorpresa, chiarì che una sua vecchia amica di stanza faceva la praticante avvocato e che le recitava spesso questa filastrocca. Tornando alla questione centrale, aggiunse che – secondo lei – non era necessario rivelare esattamente il contenuto della sua prestazione e che sarebbe stato sufficiente provare che era stata presso lo studio Lando, per convincere l’avvocato a pagarla.
Capii perfettamente l’allusione e continuai ad arrovellarmi sul caso. Tu sai che io non prendo mai cause bagatellari. Ma in quella ipotesi, la raccomandazione del presidente del tribunale e l’idea che questi avesse condiviso con me il fatto di conoscere una “squillo” mi faceva pensare che, per il futuro, avrei avuto con lui una corsia preferenziale. Non ultima, ti confesso, la voglia di prolungare il più possibile l’incontro con una donna del genere. Pensa che, da quando mi aveva comunicato la sua tariffa, la mia mente correva spesso al mio portafogli, in cui – lo ricordavo – c’erano sette fogli da cinquanta: giusto il compenso per un’ora di Clelia.
Continuai ad interrogarla ed a riflettere. Dopo un certo tempo fui, però, costretto a licenziarla, facendole presente che la situazione era disperata, ma che – in ogni caso – avrei fatto un tentativo con l’avvocato Lando.
Il caso volle che per l’indomani fossero fissate le elezioni dei consiglieri dell’ordine. Quando arrivai al seggio, mi vennero incontro, come d’uso, tutti i candidati, abbracciandomi e qualcuno anche offrendosi gentilmente di compilare la scheda in mia vece. L’avvocato Lando, presidente uscente e disposto con grande sacrificio a farsi rieleggere, dirigeva la funzione elettorale, distribuendo generosamente strizzate d’occhio, strette di mano e pacche sulle spalle. Mi avvicinai a lui. Anche se non mi poteva sopportare, l’occasione elettorale lo portò a riservare pure a me uno smagliante sorriso standard. Sfruttando la sua apertura, gli sussurrai nell’orecchio che volevo parlargli di Clelia, o forse feci il cognome Parrilla. Fatto sta che Lando scattò in piedi e mi invitò ad entrare con lui nello stanzino delle fotocopie, che in quel momento era deserto.
Gli dissi esattamente: “Ho saputo che hai avuto a che fare con quella signora”.
Lui mi rispose: “E se fosse?”.
“Ti direi che dovresti pagarla: 350 euro per quattro ore, fanno 1.400 euro”.
“Sai cosa ti dico, invece – sibilò duro –, ti dico che quella donna non l’ho mai vista. E se provi ad affermare il contrario, lei si becca una querela grande come una casa e tu smetti di fare l’avvocato”.
Così detto, si girò e uscì sbattendo la porta.
«Quando è accaduto tutto questo?» mi interruppe Giulio Rivetta che fino a quel momento era rimasto ad ascoltarmi in religioso silenzio.
Circa sei mesi fa.
«Certo che sei proprio “simpatico” … ci vediamo tutti i giorni e una storia così me la narri solo ora?!» mi pizzicò l’amico, il quale, continuando, «insomma, alla fine quell’ipocrita, quel grande frequentatore di entraineuses l’ha fatta franca …».
Fammi finire … fammi finire.
Dopo l’uscita del presidente, rimasi qualche secondo da solo nello stanzino a pensare. Ai miei ragazzi insegno sempre che le cause si vincono in fatto. Occorre sempre esaminare attentamente i documenti: è lì che si annida la soluzione. Ma in quel caso di carte non ve n’erano. L’unico fatto a mia disposizione – e al quale avrei dedicato volentieri un riesame – era Clelia. Non mi rimaneva che andarmene a casa, facendo però un giro lungo, passando cioè davanti allo studio della controparte.
Fu di fronte all’ufficio dell’avvocato Lando che ebbi l’ispirazione.
Nel pomeriggio, indirizzai una classica lettera di diffida: “Egregio Avv. Lando, premesso che il giorno 2 febbraio, dalle ore 16.00 alle 20.00, la signora Lucia Parrilla ha svolto per Lei, presso il suo studio, il suo lavoro di hostess di terra, La invito a versare alla medesima l’importo di € 1.400, con l’avvertenza che, in difetto, agirò in giudizio per la tutela dei diritti della mia assistita”.
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