§ 1. L’àmbito civilistico.
§ 2. La rilevanza penale della fattispecie.
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§ 1. L’àmbito civilistico.
Secondo l’art. 42 l.f. “la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni” anche se “pervengono al fallito durante il fallimento”.
Si determina, infatti, il c.d. ‘spossessamento’[1], per effetto del quale “si attua cioè una separazione del patrimonio dalla persona del fallito e una sua specifica destinazione al soddisfacimento dei creditori esistenti alla data della dichiarazione di fallimento”[2].
Così, l’art. 44 l.f. dispone che “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”, con l’ovvia precisazione che “inefficacia vuol dire restituzioni, ripetizioni, ecc., come se nulla fosse avvenuto”[3].
L’inefficacia di cui all’art. 44 l.f., inoltre, “non è limitata agli atti che incidono sul patrimonio già acquisito alla procedura fallimentare e soggetto all’indisponibilità da parte del fallito, ma ha carattere generale e permanente e viene meno soltanto con la chiusura della procedura concorsuale”[4].
Pertanto, il pagamento effettuato dal fallito nel corso del fallimento è (valido ma) inefficace rispetto ai creditori concorrenti, ai quali, quindi, il pagamento è “inopponibile”[5] in base al noto principio della par condicio[6].
In altri termini, “lo spossessamento implica l’inopponibilità alla massa degli atti di disposizione di beni o diritti compiuti dal fallito, sì che la curatela è legittimata ad apprendere il bene ed a disporne come se l’atto di disposizione non fosse stato compiuto[7]; in difetto però l’atto è valido ed efficace”[8].
L’azione ex art. 44 l.f. è imprescrittibile[9], ma, una volta che sia cessato il fallimento, “l’atto acquisterà piena efficacia[10].
Vale la pena di ricordare che, a differenza della revocatoria, ai fini dello spossessamento (che si produce ope legis come conseguenza automatica della sentenza) “è irrilevante lo stato soggettivo di conoscenza della sentenza stessa che possano avere i terzi, il cui eventuale affidamento incolpevole non è tutelato dalla legge”[11].
L’inefficacia, sancita dall’art. 44 l.f., può essere fatta valere soltanto dal curatore, e pertanto, in mancanza di tale intervento del curatore, i pagamenti effettuati in costanza di fallimento (già perfettamente validi ed idonei a produrre effetti) rimangono intangibili[12].
L’azione[13] del curatore per far valere tale inefficacia non è un’azione revocatoria[14] (perché non si tratta di un pagamento effettuato prima della dichiarazione di fallimento) e quindi si prescinde dal pregiudizio per i creditori[15], dalla buona fede del terzo[16], e dall’ignoranza del terzo della sentenza dichiarativa di fallimento[17]. Conseguentemente, non trova applicazione neppure “l’art. 71 l.f., e di conseguenza il terzo destinatario dell’atto inefficace non è legittimato ad insinuarsi al passivo del fallimento, ma potrà rivalersi nei confronti del fallito una volta tornato in bonis”[18].
Il fatto, poi, che il pagamento sia stato effettuato mediante bonifico è irrilevante, perché si è sostenuto che “per quanto concerne i pagamenti effettuati da un terzo, si ritiene in genere che se ne possa far valere l’inefficacia tutte le volte che il pagamento sia stato effettuato con fondi provenienti dal patrimonio del fallito”[19].
A séguito della dichiarazione di inefficacia ex art. 44 l.f. “va corrisposta alla curatela fallimentare, oltre l’importo del pagamento revocato e gli interessi legali, un ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno derivante dalla svalutazione monetaria, per il quale non è necessaria una prova specifica, trattandosi di fatto notorio”[20]
§ 2. La rilevanza penale della fattispecie.
La sanzione di inefficacia degli atti dispositivi del fallito – prevista dall’art. 44 l. fall. – è un rimedio civilistico che non esclude la responsabilità penale[21].
Secondo l’art. 216 l.f. “è punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito[22] che durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti”[23].
Si tratta della reato[24] di favoreggiamento dei creditori, meglio nota come bancarotta (fraudolenta) preferenziale[25], che non lascia senza sanzione il fatto dell’imprenditore che “consapevolmente lede il diritto dei creditori al trattamento paritario, usando ad alcuni di essi indebite preferenze a danno degli altri”[26]: l’interesse offeso è quindi quello dei creditori alla distribuzione dell’attivo secondo i principi della par condicio creditorum[27].
Ovviamente, deve trattarsi di un credito effettivamente sussistenza ed avente diritto al concorso, e non di un credito fittizio (altrimenti si avrebbe “distrazione”), ma non occorre che il credito sia anche liquido ed esigibile; i pagamenti, inoltre, possono essere effettuati con qualsiasi mezzo[28] e può trattarsi di un credito qualunque[29]
Per l’esistenza del delitto occorre un dolo specifico[30] (che la legge indica con la formula “a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi”: c.d. animus favendi[31]) e non è mancato chi ha sostenuto che “nei fatti di bancarotta commessi dopo la dichiarazione di fallimento, il dolo deve ritenersi in re ipsa e cioè presumersi dall’interprete ove sia accertato l’elemento materiale del reato”[32].
Le circostanze specifiche della bancarotta preferenziale (ma non solo) sono indicate dall’art. 219 l.f., che prevede un aumento di pena fino alla metà o una riduzione fino al terzo, a seconda che il fatto abbia cagionato, rispettivamente, un danno patrimoniale di rilevante entità o speciale tenuità per il fallimento e quindi per la massa dei creditori. Per la determinazione della gravità o della tenuità del danno, “non è possibile fornire criteri precisi: la legge, in sostanza, si rimette al prudente apprezzamento del magistrato”[33].
Il reato di bancarotta preferenziale è monosoggettivo, per cui il creditore ne può rispondere solo a titolo di concorso eventuale (art. 110 c.p. e 232, comma 3 n. 1, l.f.)[34].
Tuttavia, quanto all’eventuale concorso nel reato del creditore illegittimamente preferito, deve segnalarsi una marcata discrasia tra dottrina e giurisprudenza. La prima, infatti “da tempo ha concordemente riconosciuto che nel nostro ordinamento giuridico non esiste per il creditore l’obbligo di rifiutare il pagamento del proprio credito, anche se il debitore si trova in stato di insolvenza, per cui il creditore favorito non è punibile”[35]. Secondo la giurisprudenza, invece, sussiste il concorso: se il creditore favorito abbia istigato il debitore al pagamento preferenziale[36] o abbia determinato o aiutato il fallito ad effettuare il pagamento[37], se abbia richiesto ed accettato tale pagamento consapevole dell’insolvenza del debitore e del vantaggio ricavato dalla preferenza indebita[38], o – addirittura – se si sia limitato a sollecitare l’illecita preferenza[39].
In buona sostanza, volendo cercare un punto di contatto tra dottrina e giurisprudenza, si rileva che l’art. 1186 c.c. legittima il creditore ad esigere immediatamente la prestazione, anche in pendenza di termine stabilito in favore del debitore, se questi è divenuto insolvente, e pertanto lo stato d’insolvenza esistente e conosciuto al momento del pagamento di un debito scaduto non è, di per sé, elemento idoneo a concretare una bancarotta preferenziale né un concorso nella stessa da parte del creditore favorito. Tuttavia, l’art. 1186 c.c. non sarebbe applicabile quando lo s
tesso fatto – pagamento in stato di insolvenza – assuma un diverso, opposto rilievo con la dichiarazione di fallimento del debitore in virtù di norme speciali che prevedono l’inefficacia di quei pagamenti o attribuiscono loro un carattere delittuoso se qualificati dal fine di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi. In tal caso, anche il creditore favorito che abbia agito con lo stesso elemento soggettivo risponde, a titolo di concorso, del delitto di bancarotta preferenziale[40].
[1] Cfr., per tutti, Gazzoni, Manuale di diritto privato, pag. 1419, secondo cui “sul piano patrimoniale la sentenza dichiarativa di fallimento va equiparata ad un atto di pignoramento collettivo, cioè all’inizio di una esecuzione forzata a cui partecipano tutti i creditori tramite la persona del curatore”. La tesi tradizionale parla, appunto, di “pignoramento generale”: cfr. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Vol. II, pag. 790.
[2] Ferri, Manuale di diritto commerciale, pag. 572 e ss.
[3] Pajardi, Codice del fallimento, pag. 156. Cfr., altresì, Ferrara jr, Il fallimento, pag. 308. V., in giurisprudenza, Cass. 4 luglio 1979 n. 3782.
[4] Tribunale Napoli 1 dicembre 1978.
[5] Gazzoni, Manuale di diritto privato, pag. 1419.
[6] Cfr. Cass. 18 aprile 2000 n. 4957, secondo cui “l’art. 44 l. fall., nel prevedere l’inefficacia, rispetto ai creditori, dei pagamenti eseguiti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, configura logico corollario della perdita della disponibilità dei beni acquisiti al fallimento stesso (art. 42) e mira a preservare l’integrità dell’attivo, assicurando la par condicio creditorum”.
[7] Cass. n. 6777/1988.
[8] Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pag. 96.
[9] Cfr. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, pag. 274, Mazzocca, Manuale di diritto fallimentare, pag. 209. In giurisprudenza, Cass. 13 ottobre 1970 n. 1979.
[10] Galgano, Diritto privato, pag. 888. In giurisprudenza, Tribunale Napoli 1 dicembre 1978.
[11] Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pagg. 96-97. In giurisprudenza, trib. Milano 25 febbraio 1994.
[12] Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pag. 108.
[13] Si noti che “nel giudizio promosso dal curatore del fallimento per ottenere la dichiarazione di inefficacia dei pagamenti dopo la dichiarazione di fallimento, in presenza di prova scritta idonea è ammissibile l’ordinanza ingiunzione di cui all’art. 186 ter c.p.c.” (Tribunale Pinerolo 25 gennaio 1998). Si sottolinea, altresì, che “la declaratoria di inefficacia degli atti posti in essere dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento può farsi valere giudizialmente dal curatore anche per decreto ingiuntivo” (Corte appello Palermo 20 aprile 1988.
[14] Cfr. Tribunale Napoli 1978, nonché Corte Appello Bologna 18 febbraio 1995, secondo cui “l’azione di inefficacia di cui all’art. 44 l. fall. si differenzia da quella revocatoria prevista dall’art. 67 l. fall., in quanto riguarda gli atti compiuti dopo la dichiarazione di fallimento”.
[15] Cfr. Corte Appello Bologna 18 febbraio 1995, Corte appello Torino 27 maggio 1985.
[16] Cfr. Tribunale Torino 26 giugno 1995, Tribunale Roma 5 novembre 1999, secondo cui “l’inefficacia sancita dall’art. 44 l. fall. è una sanzione obiettiva che opera indipendentemente dalla buona o mala fede del terzo, atteso che l’indisponibilità del patrimonio dell’imprenditore dichiarato fallito produce un effetto automatico erga omnes, prescindendo dalla conoscenza effettiva di tale evento”.
[17] Cfr. Tribunale Napoli 10 aprile 1984, nonché Corte Appello Torino 2 aprile 1986, secondo cui “l’inefficacia di cui all’art. 44 l. fall. si produce ope legis quale diretta conseguenza dello spossessamento che subisce il debitore, prescindendosi – dunque – non soltanto dalla conoscenza della sentenza dichiarativa di fallimento, ma anche dalla sua conoscibilità”.
[18] Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pag. 108.
[19] Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pag. 109.
[20] Tribunale Milano 25 gennaio 1982 e 11 dicembre 1980.
[21] Tribunale Roma 3 maggio 1985.
[22] Nel fallimento delle società in nome collettivo ed in accomandita semplice i soci illimitatamente responsabili rispondono per i reati commessi, in quanto falliti in proprio ai sensi dell’art. 147 l.f. (cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, pag. 1439).
[23] La stessa norma, al comma successivo aggiunge che “salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”.
[24] Critico – anzi, indignato – per la previsione di un reato basato sul pagamento di un debito è – tra gli altri – Pajardi, Codice del fallimento, pag. 780, secondo cui “è inimmaginabile che vengano puniti fatti considerati dalla legge come doverosi sul piano della vita fisiologica del diritto”.
[25] Cfr. Gazzoni, Manuale di diritto privato, pag. 1438.
[26] Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Vol. II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, pagg. 83-4.
[27] I creditori hanno infatti diritto di costituirsi parte civile nel processo penale ex art. 240 l.f., ma solo nel caso in cui non si sia costituito il curatore per il fallimento: cfr. Panzani-Colombini, Il fallimento. Profili applicativi, pag. 143.
[28] Cfr. Corte Appello Milano 21 ottobre 1993, secondo cui “nella nozione di pagamento, rilevante ai fini dell’integrazione del delitto di bancarotta c.d. preferenziale, rientra ogni forma di solutio che comporti comunque l’estinzione del debito, anche mediante la costituzione di un nuovo rapporto, inverso a quello precedente, che estingua il primo”. V., altresì, Cass. 2 aprile 1986, secondo cui ai nostri fini, “per pagamento deve intendersi qualsiasi forma di solutio, e non soltanto il pagamento di una somma di denaro” (fattispecie di consegna di merci ad alcuni creditori). Cfr., infine, Cass. 14 dicembre 1982, la quale precisa che “non costituisce ‘pagamento’ il rilascio di cambiali, trattandosi di un titolo di credito e pertanto di una semplice promessa di pagamento”
[29] Cfr. Pajardi, Codice del fallimento, pag. 793.
[30] Nella bancarotta preferenziale il dolo specifico consiste nel fine di favorire taluno dei creditori in danno degli altri (Cass. 31 gennaio 2000 n. 962 e 31 gennaio 2000 n. 1017), ma non occorre che il danno alla massa sia voluto direttamente dall’agente, essendo sufficiente l’accettazione della sua eventualità (Cass. 4 marzo 1998 n. 4431, Tribunale Lecce 30 novembre 1993, Tribunale Monza 1 luglio 1992, Cass. 28 maggio 1991, Cass. 19 aprile 1988, Cass. 12 marzo 1987, Cass. 27 settembre 1984, Cass. 22 aprile 1986).
[31] Cfr. Tribunale Monza 1 luglio 1992.
[32] Monelli, Fallimento, III, pag. 363, nonché Lordi, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, pag. 295. Contra Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Vol. II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, pag. 91, il quale ricorda che “la presunzione assoluta di dolo, il c.d. dolus in re ipsa, non ha diritto di cittadinanza nel diritto penale odierno”.
[33] Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Vol. II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, pag. 154.
[34] Tribunale Monza 1 luglio 1992.
[35] Manuale di diritto penale. Leggi complementari, Vol. II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’urbanistica, pagg. 170-1. V. pure Mon
elli, Fallimento, pag. 338.
[36] Cass. 3 marzo 1961.
[37] Tribunale Monza 1 luglio 1992.
[38] Cass. 30 luglio 1973.
[39] Cass. 20 ottobre 1981, nonché Tribunale Lecce 30 novembre 1993, secondo cui “ai fini della configurabilità del delitto di concorso in bancarotta preferenziale nei confronti del creditore che ha ricevuto il pagamento è necessario che questi sia stato partecipe con il debitore dello scopo di essere favorito a danno degli altri creditori o abbia addirittura sollecitato l’illecita preferenza; contra Cass. 22 aprile 1981, secondo cui ex art. 1186 c.c. la mera conoscenza dello stato di insolvenza da parte del creditore che sollecita il pagamento di un debito non è di per sé elemento idoneo a concretare un concorso del creditore nel reato di bancarotta preferenziale; tuttavia il concorso del creditore sussiste se egli sia partecipe dello scopo di favorire o abbia addirittura sollecitato l’illecita preferenza.
[40] Cass. 17 novembre 1983.
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