È attuale il divieto di subordinazione per gli avvocati?

di Francesco Volpe
Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Padova

1. — Ho riflettuto sul modo con cui sta evolvendo il lavoro dell’avvocato, e mi pare di avere individuato una possibile soluzione ad alcuni problemi che ci toccano da vicino.

Dico subito che la soluzione non mi piace, perché è contraria allo spirito dell’avvocatura e perché la trovo umiliante. Ma non sempre quel che è opportuno fare è cosa gradita. Del resto, i presupposti, che, secondo me, rendono detta soluzione quasi necessitata, non sono addebitabili agli avvocati.

2. — Partiamo proprio dai presupposti.

Essi sono in parte economici, in parte giuridici.

Quelli economici sono collegati, ovviamente, all’attuale stato di crisi generale. Tutti sappiamo che, in situazioni del genere, è il comparto del terziario a soffrire di più. Noi avvocati vi rientriamo pienamente.

La crisi, nel nostro settore, sta provocando conseguenze in qualche misura imprevedibili.

Una certa parte del lavoro è addirittura incrementata (fallimenti, recupero crediti, liti a sfondo patrimoniale).  Non è raro che, nel momento del bisogno, chi è in ristrettezze cerchi di risolvere i propri problemi trasferendoli sugli altri. Questo modo di procedere comporta, non di rado, l’instaurazione della lite.

Si tratta, tuttavia, di un incremento di lavoro che non è sempre stimolante. Proprio perché il relativo contenzioso non soddisfa interessi di “mantenimento“, ma mira a risolvere problemi drammaticamente immediati, chi intenta questa sorta di controversie non è sempre in grado di anticipare le competenze del professionista o di onorarle. Ho perciò l’impressione che mai come in questo periodo siano stati stipulati patti di quota lite, propri o impropri.

Se badiamo, invece, al contenzioso fisiologico, esso sembra procedere con un andamento a “fisarmonica“. Accanto a momenti di euforia – collegati alla fiducia che le scintille di una possibile ripresa qui e là suggeriscono – assistiamo a momenti di vera stasi, quando quelle scintille si rivelano essere fuochi fatui.

In generale, poi, è noto che vi è una difficoltà, per il professionista, di ottenere la liquidazione dei propri compensi. La stessa stampa nazionale ha vinto il tradizionale snobismo verso i problemi del nostro ceto, cominciando a darne conto.

La crisi, perciò, ha diminuito il lavoro, ha diminuito gli incassi, ha incrementato forme di contenzioso in cui l’avvocato si fa consorte del cliente e ha, infine, generato una domanda instabile nei nostri servizi.

3. — Passando ad esaminare le questioni giuridiche, si può dire che l’abolizione dei minimi tariffari (il c.d. “decreto Bersani“) ha portato a maturazione i suoi frutti avvelenati.

Lungi dal favorire l’avvocatura “giovane“, detta abolizione ha invece operato a vantaggio degli studi professionali più strutturati e capaci di sopportare le richieste di forti “sconti“, avanzate dai grandi collettori del contenzioso ripetitivo.

Le condizioni contrattuali imposte da Banche ed Assicurazioni sono ben conosciute da tutti e solo il professionista che lavora sui grandi numeri è in grado di accettarle. Non è in grado, invece, il professionista “artigiano” che, sulla giusta remunerazione di quel decreto ingiuntivo, conta, per trarre il proprio equo profitto.

Se, quindi, l’avvocato “artigiano” sta progressivamente abbandonando alcuni tradizionali settori di attività, il mercato li convoglia verso lo studio di tipo strutturato. Il quale in questo modo assorbe, oltre alla propria quota iniziale, anche quella dei professionisti costretti a cederla.

Ulteriori colpi di maglio agli studi individuali – o non strutturati – sono stati dati dall’esaurimento del contenzioso in materia di sinistri stradali, dall’incremento delle spese di giustizia e del carico fiscale.

Neppure l’aumento della contribuzione previdenziale, nonché delle spese necessarie per adeguarsi ai profili di tutela dei dati personali e della sicurezza del posto di lavoro, facilita l’esercizio della professione in forma artigianale, perché in questo modo crescono i costi fissi e, con loro, si alzano le barriere all’ingresso.

Vorrei sottolineare che, nella voce “costi fissi“, va compreso anche l’aggiornamento professionale. Non tanto perché i corsi siano a pagamento (nel Veneto, l’attivismo delle varie associazioni, che forniscono tali servizi in modo pregevole e soprattutto gratuito, ha rapidamente chiuso la porta in faccia a quegli operatori esterni che contavano di lucrare dalla riforma e che forse l’avevano addirittura suggerita).  Ma perché i corsi sottraggono al professionista tempo altrimenti dedicato al lavoro. Il costo di questo tempo-lavoro difficilmente potrà essere recuperato, quasi fosse una sorta di imposta indiretta, elevando le parcelle, perché a ciò si oppone, appunto, la politica al ribasso dei nostri onorari.

4. — Tanto i rilievi sulla contingenza economica, quanto quelli di natura giuridica, ricadono negativamente soprattutto su chi oggi intende avviare l’attività e, perciò, sul giovane avvocato.

L’avvocato che abbia alle spalle anni di professione e goda di una clientela consolidata è, infatti, leso in modo minore dalla situazione contingente. Certo non è in questo periodo che egli potrà sperare di arricchirsi. Paradossalmente, però, questo tipo di professionista, se è a capo di uno studio “ad organizzazione semplice“, sopporterà con più facilità la difficile congiuntura economica, non avendo rilevanti costi fissi da remunerare ad ogni fine del mese. Su questo professionista, pertanto, inciderà in modo particolare l’aumento dei costi imposto dalla recente normativa.

Fin qui non credo di avere detto nulla di ignoto a chi legge.

Forse non tutti, però, hanno pensato alle conseguenze che tale congiuntura di presupposti giuridici ed economici causa sul nostro mercato del lavoro.

Avviare un nuovo studio legale, in queste circostanze, è infatti impresa per individui estremamente ottimisti.

Il giovane avvocato – anziché iniziare un’attività in proprio – è così sempre più portato a prestare la propria opera proprio in quegli studi strutturati di cui ho fatto cenno.

Quel giovane avvocato, pertanto, costituisce la forza lavoro di quegli studi e contribuisce a crearne la struttura stessa.

Sia chiaro: il discorso che sto svolgendo non è privo di genericità, perché indubbiamente vi è anche chi non apre un proprio studio semplicemente perché non vuole assumersene la responsabilità.
In linea di massima, tuttavia, una tale scelta è indotta da ragioni di necessità.

5. — Andiamo ora a considerare qual sia la sorte del giovane professionista, impiegato in detti studi.

Ivi egli è, di fatto, un lavoratore dipendente, perché sottostà alle indicazioni di altri, che dice a lui di che pratica deve occuparsi e come se ne deve occupare. Tale avvocato, in altri termini, difetta di un requisito essenziale del professionista libero, che è tale soprattutto perché può decidere se accettare gli incarichi o no.

Di fatto, questo avvocato è tenuto anche a rispettare un orario di lavoro e di presenza in studio; deve dare giustificazione delle proprie assenze, nonché del tempo dedicato ad ogni sua attività.

A intervalli più o meno regolari, egli riceve un corrispettivo che, sebbene figuri come una sorta di compenso per attività professionale svolta a favore del titolare dello studio, è, sempre di fatto, un vero e proprio trattamento stipendiale. Detto trattamento, inoltre, per definizione non è parametrato al valore delle questioni affrontate, ma è inferiore. Se diversamente fosse, non vi sarebbe convenienza, per chi “assume” il giova
ne collaboratore, a servirsi della sua attività.

6. — Nonostante tutti questi rilievi di fatto che propendono per una qualificazione di lavoro subordinato, quel professionista, giuridicamente, non è, e non può essere, un lavoratore dipendente, perché la nostra disciplina professionale vieta di svolgere l’attività in tal modo (così stabilisce l’art. 3 della legge professionale).

Ne segue che un tale professionista, non potendo, giuridicamente, essere un lavoratore dipendente (ancorché di fatto lo sia), risulta privo delle relative tutele: stabilità del rapporto, orario di lavoro prefissato, ferie, permessi di malattia, licenziamento solo per giusta causa, prevedibilità del trattamento retributivo, trattamento di fine rapporto.

Di contro, il titolare dello studio si avvantaggia del disporre di personale che nella realtà è formato da lavoratori dipendenti, ma di intessere con lo stesso un ben più duttile rapporto giuridico di collaborazione professionale.

Né sarebbe ipotizzabile applicare alla fattispecie l’art. 2126 del codice civile, perché affermare la sussistenza, di fatto, di un rapporto di dipendenza lavorativa integrerebbe una contrarietà a norme imperative, se non addirittura una causa illecita del contratto.

7. — Tale situazione, oltre a non sembrare del tutto equa, cagiona ricadute sul piano economico generale e sul corretto svolgimento della professione.

Sotto il primo profilo, lo studio “strutturato” finisce per trovarsi, rispetto ai professionisti “artigiani“, in una posizione di vantaggio sul mercato, essendo in grado di offrire il proprio servizio ad un minor prezzo. Ne segue che, altrettanto potenzialmente, quel tipo di studi è in grado di dettare le regole del mercato stesso e di sperare di poter incrementare, progressivamente, la stessa posizione di vantaggio iniziale, ai danni degli studi non strutturati.

Sappiamo, infatti, che la situazione di concorrenza è di per sé instabile, perché essa tende naturalmente verso l’oligopolio. Tale è l’indirizzo verso cui potrebbe dirigersi anche il nostro settore, in assenza di correttivi.

Se la cosa non appare oggi del tutto conclamata è solo perché gli studi strutturati italiani sono ancora, nella loro gran parte, l’evoluzione di originari studi artigianali, e perché essi ancora conservano, almeno in parte, l’habitus mentale iniziale che impedisce loro di praticare una strategia di mercato fino in fondo aggressiva e di trattare i propri collaboratori nel più vantaggioso modo offerto dalla situazione.

Tuttavia, è solo questione di tempo, perché il processo evolutivo giunga a definitivo compimento. Se, soprattutto nelle grandi città (dove, da quel dì, il rapporto di fiducia tra il cliente e l’avvocato è stato soppiantato da considerazioni di più prosaica convenienza), i fenomeni a cui ho accennato sono già ampiamente riscontrabili, il probabile ingresso, in Italia, di studi strutturati stranieri (ma con personale italiano) accentuerà vieppiù la tendenza, perché essi si imporranno essendo privi di quella tradizione culturale che viceversa costituisce un freno per gli operatori italiani.

Le ricadute della situazione che ho descritta sono, tuttavia, avvertibili anche in altri àmbiti.

L’avvocato ghost writer, che opera per conto terzi, è, infatti, estremamente mobile.

Proprio perché privo di stabilità nel rapporto con lo studio in cui è inserito, egli, di fronte a guadagni marginali pur modesti, non esita ad abbandonare uno studio per dirigersi altrove. Talvolta sono addirittura intere “porzioni” di uno studio a staccarsi, per saldarsi ad altre unità.

Questi eventi, come è noto, sono sempre estremamente delicati, perché al transito degli avvocati corrisponde spesso anche quello dei clienti, sicché il rischio del comparaggio è forte.

Inoltre, l’avvocato, giunto nel nuovo studio, facilmente potrà trovarsi ad affrontare questioni da lui già esaminate o conosciute ma dal fronte avverso, quando egli operava nello studio precedente. In questi casi, il libero professionista dovrebbe astenersi, ma quel professionista libero non è. D’altra parte, poiché egli raramente firma gli atti, la cosa difficilmente potrà emergere.

Sono arrivato, dunque, alla soluzione che, temo, sia necessaria e che qui prospetto.

Vale a dire quella di reputare che forse è arrivato il momento, doloroso, di abbandonare il divieto di svolgere l’attività di avvocato in forma di lavoro subordinato.

Se una tale abolizione dovesse essere introdotta – con quel che, amaramente, tutto ciò significa sotto il profilo culturale e sotto il profilo dell’identità della nostra figura – si avrebbe forse una maggiore tutela per il professionista giovane, si riequilibrerebbe almeno parzialmente il nostro mercato, si potrebbero regolamentare obblighi di fedeltà (non direttamente verso il cliente, ma verso lo studio da cui si dipende), che diversamente potrebbero essere aggirati.

Spero, tuttavia, di sbagliarmi e forse qualche Collega potrà convincermi del fatto che non è questo l’unico, possibile, exitus.

 

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