Come ricordava più o meno quattro secoli fa l’avvocato e Cardinale Giovanni Battista De Luca in una sua fortunata opera recentemente pubblicata anche dal Consiglio Nazionale Forense, il significato della parola “stile” deriva da quello strumento di ferro aguzzo -lo “stilo” o “stile”, appunto- col quale si scriveva nelle tavole e nelle tele incerate, “attesoché quando si vedea una scrittura ben fatta, si dicea effetto di un buono stile“.
Come ogni altra scrittura e forma di espressione, anche gli atti giudiziari possono essere “effetto di un buono stile”, non soltanto in senso estetico o formale (cfr. artt. 46 e 111 disp.att.cpc) ma anche e soprattutto sostanziale.
A quest’ultimo proposito, come ho già provato a sostenere altrove, affinché possa sperare di persuadere sulla bontà delle proprie argomentazioni, è necessario che il contenuto dell’atto giudiziario sia il più possibile:
1) CHIARO
2) BREVE
L’ampia letteratura che nel corso dei millenni si è formata in proposito, rende possibile definire soddisfacentemente entrambi tali requisiti.
Un atto giudiziario è chiaro, cioè comprensibile, quando rispetta le seguenti quattro massime:
– massima di quantità: fornisce informazioni in misura né maggiore né minore di quanto richiesto al momento
– massima di qualità: non afferma cose palesemente infondate o di cui non offre prove adeguate
– massima della relazione: afferma cose pertinenti
– massima del modo: si presenta in modo ordinato, evitando oscurità e ambiguità.
Un atto giudiziario è breve quando evita di dire con 100 parole ciò che può dirsi con 10, giacché intelligenti pauca, ossia “a chi capisce, basta poco” (e, specularmente, “a chi non capisce, non basterebbe neppure il troppo”, che in entrambi gli accennati casi deve quindi ritenersi -seppur per ragioni diverse- sempre inutile).
La straordinaria importanza della brevità (omaggiata anche nell’Elogio da Calamandrei, che ivi ricorda appunto il motto, scolpito nelle aule di udienza della Corte di Cassazione, Nimium altercando veritas amittitur, ossia Il troppo discutere fa perdere di vista la verità) è stata recentemente confermata anche da alcuni studi sull’attenzione e sulla comunicazione in genere, secondo cui l’uditorio riesce mediamente a recepire appena il 50% (e a ripetere non più del 20%) di ciò che gli viene comunicato, ma -dato ancor più rilevante- la dispersione ricettiva dell’uditorio cresce esponenzialmente all’aumentare della lunghezza del discorso, quindi non è utile ma è addirittura controproducente cedere alla tentazione di aumentare quantitativamente il contenuto della comunicazione nella vana speranza (o convinzione) che rimanga invariata la percentuale di ricezione dell’uditorio (50%) e quindi aumenti in termini assoluti la quantità di comunicazione (trasmessa e) recepita.
La buona notizia è che, recentemente, chiarezza e brevità degli atti giudiziari sono stati presi espressamente in considerazione dal neonato Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104), che infatti, in modo del tutto inedito rispetto ai più anziani codici di rito civile e penale (i quali, nel corso degli ultimi decenni di rispettiva vigenza, si sono limitati soltanto a meri auspici), formalmente dispone che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica” (art. 3, co. 2).
In modo ancor più coraggioso (giacché siffatte regole di stile preconfezionate fanno comprensibilmente storcere il naso a più d’un pessimista), il presidente del Consiglio di Stato ha recentemente dato ulteriore concretezza alla citata disposizione codicistica, precisando che un atto giudiziario è CHIARO quando nell’incipit contiene una sintesi del suo contenuto, ed è BREVE quando non supera le 20-25 pagine.
Tali principi sono stati recentemente espressi anche dal Tribunale di Milano, con raccomandazioni approvate nella riunione del 6 febbraio 2014, e, infine, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano, il 15 maggio 2014, come segnalato in questo articolo.
* * *
Certi che l’interazione di due contrapposte tesi (che Platone ha per primo definito “dialettica”, ossia “uso corretto della ragione”) possa contribuire a ricercare la verità, è con vero piacere che pubblichiamo qui di seguito l’immediata replica dell’Avv. Francesco Volpe, ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Padova, che ringrazio per il confronto.
MA È VERO CORAGGIO?
Abbiamo letto tutti le indicazioni del massimo Ufficio della giurisprudenza amministrativa, volte a rinsaldare i principi di brevità, nello svolgimento degli atti giudiziari, che già sono stati affermati dal recente codice del processo amministrativo.
In disparte i problemi di stretto diritto (come viene sanzionata la violazione del relativo dovere? con una condanna ulteriore in sede di determinazione delle spese processuali? e se a non essere breve fosse la parte vittoriosa in giudizio? o forse si deve dire che non può mai essere vittorioso in giudizio chi non è sintetico?), il tutto lascia, però, un po’ perplessi.
L’omaggio alla sinteticità non può, in linea astratta, che essere apprezzato. Chi non preferisce che l’atto sia breve?
Però…
Però…, dicevo…
Si può essere brevi, quando la controversia amministrativa poggia su una base ordinamentale più volte riformata? Solo in materia di appalti, dal 2006 ad oggi, il relativo codice ha subito quattro correttivi, oltre alle riforme minori.
Si può essere brevi, quando la medesima controversia deve tenere conto di una pluralità di fonti (sempre in materia di appalti e sempre a mo’ di esempio: regolamenti e direttive comunitari, sentenze della Corte di Giustizia, leggi statali, sentenze della Corte costituzionale, regolamenti statali, leggi regionali, provvedimenti dell’Antitrust, capitolati generali, capitolati speciali, bando di gara)?
Si può essere brevi quando la giurisprudenza amministrativa muta opinione un dì per l’altro, di talché occorre tenere conto di ogni più eccentrica pronuncia, contestarla e prevenire ogni terza, quarta, quinta via dell’organo giudicante?
Si può essere brevi, quando la disciplina processuale introduce preclusioni che dapprima non esistevano o quando essa inserisce nuove formalità e formalismi in rito?
Si può essere brevi quando i termini di difesa vengono ridotti e manca il tempo per una rifinitura dell’atto?
Si ha il dovere di essere brevi, quando si dubita che il giudice possa non capire quel che si va esponendo? Intelligenti pauca et haud intelligenti inutiliter, dice il curatore di questo sito. Ma qui non si tratta di avere ragione o torto in una discussione accademica, quanto di far riconoscere una tesi produttiva di conseguenze – giuridiche, personali e patrimoniali – che ricadranno sulla pelle del cliente.
Si deve essere brevi, quando si versano anche 2.000 euro di contributo unificato?
Si deve essere brevi quando i fatti dedotti in causa sono complessi o sono il frutto della difficile applicazione di regole scientifiche?
Perché si deve essere brevi?
Soprattutto, a chi giova essere brevi?
Spero di essere stato breve. Diversamente, mi emenderò: repetita iuvant.
0 Comment