Notifica a mezzo PEC: l’avvocato deve firmare l’atto cartaceo altrui?

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Prendendo spunto da una interessante discussione su twitter, a futura memoria è forse il caso di riassumere anche in questa sede, cioè senza i limiti dei 140 caratteri, la questione ivi trattata, che ruota tutta intorno alla seguente domanda:

nella notifica in proprio a mezzo pec, l’avvocato deve apporre la propria firma digitale ai provvedimenti altrui digitalizzati (ad es., una sentenza cartacea poi scanerizzata ai fini della notifica)?

Il quesito si pone stante l’art. 22 co. 1 CAD, rubricato “Copie informatiche di documenti analogici”, secondo cui:

1. I documenti informatici contenenti copia di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti e documenti amministrativi di ogni tipo formati in origine su supporto analogico, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai sensi degli articoli 2714 e 2715 del codice civile, se ad essi e’ apposta o associata, da parte di colui che li spedisce o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata. La loro esibizione e produzione sostituisce quella dell’originale.

In altri termini, il comma 1 dell’art. 22 CAD si applica o no alle notifiche in proprio a mezzo PEC?

Fermo restando, ovviamente, il c.d. principio del minimax, secondo cui “una firma in più non costa nulla”, la risposta affermativa alla suddetta domanda, che si basasse su mere ragioni tuzioristiche e prudenziali soddisferebbe ampiamente il pratico ma non appagherebbe del tutto il teorico, il quale non vuol tanto sapere se quella firma in più “costa”, ma piuttosto se è giuridicamente obbligatoria oppure no.

Ebbene, (a mio avviso) non lo è.
E ciò, perché la legge (art. 3bis co. 2 L. n. 53/1994 e art. 18, co. 4, DM n. 44/2011) nello stabilire come si notifica un atto analogico (cioè non informatico nativo, ovvero un documento cartaceo), dispone che l’avvocato ne deve estrarre copia informatica per immagine (tradotto: lo scannerizza), e quindi “compie l’asseverazione prevista dall’articolo 22, comma 2, del codice dell’amministrazione digitale, inserendo la dichiarazione di conformità all’originale nella relazione di notificazione, a norma dell’articolo 3-bis, comma 5, della legge 21 gennaio 1994, n. 53”.

La legge stessa, pertanto, espressamente stabilisce le modalità dell’asseverazione con dichiarazione da farsi “nella relazione di notificazione”, all’uopo limitandosi a richiamare il comma 2 (e non anche il comma 1 cit.) dell’art. 22 CAD, secondo cui:

2. Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono estratte, se la loro conformita’ e’ attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a cio’ autorizzato, con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 71.

Ciò, per quanto concerne la lettera della legge.
A tale conclusione, peraltro, si perviene anche avuto riguardo sia alla ratio della legge stessa (che intende infatti attribuire certezza alle notifiche effettuate dagli avvocati, ed all’uopo non è necessario che gli stessi firmino i provvedimenti altrui come ad esempio le sentenze, di cui non intendono ovviamente assumere alcuna paternità), sia all’evoluzione storica della norma (l’art. 18 DM 44/2011 cit. infatti prevedeva ma non prevede più una tale formalità di firma).

Insomma, secondo una interpretazione tanto letterale, quanto teleologica e storica della normativa in parola, l’asseverazione, cioè la dichiarazione di conformità relativa all’atto cartaceo altrui contenuta nella relata di notifica, è requisito necessario e sufficiente alla notifica a mezzo PEC di un documento nato analogico, sicché alla domanda di cui sopra deve a mio avviso darsi risposta negativa.